Andy Warhol, Mick Jagger

Autore:WARHOL ANDY

N. - M. :Pittsburgh, 1928 – New York, 1987

Tecnica:Poster su carta 300 gr. firmato a mano dall'artista

Misure:100 x 65 cm

Classificazione: Figure, Figurativi, Altre Tecniche, Moderni

Note Critico - Biografiche

Andy Warhol

Pittsburgh, 1928 – New York, 1987

 

 

Mick Jagger

Foto di un Poster da una serigrafia di Andy Warhol "Mick-Jagger" di 100x65 cm firmato a mano da Andy Warhol
Poster di 100×65 cm firmato a mano da Andy Warhol

 

Opera accompagnata da certificazione di autenticità della Andy Warhol Foundation for the Visual Arts, Inc. nella quale viene attestata l’autenticità della firma del grande artista.

 

 

 

Personalità ossessiva ed eccentrica, Andy Warhol fu tra i più significativi esponenti della pop art imponendosi, anche come personaggio, nella scena artistica internazionale. Notissime le sue serie serigrafiche dedicate al concetto della riproducibilità e della commercializzazione dell’arte. Figlio di immigrati slovacchi, dopo gli studi al Carnegie Institute of Technology nel 1949 si stabilì a New York, dove cominciò a lavorare come grafico pubblicitario ottenendo numerosi riconoscimenti. Nel 1961 eseguì le sue prime serigrafie ispirate ai fumetti, ai prodotti commerciali e alle immagini tratte dai mass media che elaborò in serie, portando alle estreme conseguenze il principio della riproducibilità dell’opera d’arte e dell’arte come prodotto commerciale (Campbell’s soup, ritratti di Marilyn Monroe, ecc.). Nel suo studio, luogo d’incontro per artisti e intellettuali, promosse eventi multimediali registrati in filmati, preludio al suo vivo interesse per la fotografia e la cinematografia. Realizzò sia lungometraggi di monotona staticità (Sleep, 1963) sia filmati con una certa tendenza al racconto. Dal 1970 si dedicò prevalentemente ai ritratti elaborati con tecnica fotoserigrafica e manipolati con pesanti segni, chiazze di colore e larghe pennellate. Pittsburgh ospita un museo a lui dedicato.  

da treccani.it 

 

 

ANDY WARHOL, THE AMERICAN DREAM 

Il ready made di Duchamp è, insieme alla tecnica del surrealismo, la matrice linguistica della Pop Art. Ma c’è anche la pittura dell’american scene di stampo realistico, portata in Hopper a celebrare puritanamente il senso della città, la trasformazione della natura in storia. Di questa tradizione figurativa naturalmente Andy Warhol non riprende l’etica di fondo, bensì soltanto l’ottica descrittiva e oggettiva che assisteva questo tipo di figurazione, d’altronde già presente nelle descrizioni letterarie. Lo stesso artista riconosce il proprio legame con l’anima calvinista dell’America quando, nel 1977, confida a Nancy Blake su “Art Press”: «lo sono fatto alla vecchia maniera. È veramente il mio problema, sa? L’etica protestante. Se potessi fare a meno dei prodotti, sarebbe l’ideale. Ma oggi, per semplificare, ci vogliono un sacco di soldi.» Altro precedente importante poi è la ricerca di Jasper Johns sugli stereotipi visivi della vita americana, che negli anni Cinquanta spostava l’opera sul versante dell’impersonalità e della tautologia visiva, nonostante la pittura avesse ancora il sopravvento. Andy Warhol procede oltre, sposta completamente il tiro nella direzione dell’immagine oggettiva, stereotipata e meccanica. «Tutti si rassomigliano e agiscono allo stesso modo, ogni giorno che passa di più. Penso che tutti dovrebbero essere macchine. lo dipingo in questo modo perché voglio essere una macchina.» Così afferma Andy Warhol in una intervista su “Art News” del novembre 1963. Con la sua presenza fredda e distaccata cancella ogni traccia di profonditi e i suoi quadri, i suoi ritratti, diventano la celebrazione della superficie per la superficie. Lo strumento da lui usato è uno stile che non rifiuta il sistema meccanico di riproduzione dell’immagine, perlomeno dell’ottica e dello spirito che lo determina, ma anzi accoglie il procedimento e la neutralità di fondo che lo sorreggono. Perché questo avvenga è necessario eliminare ogni discriminazione per quanto riguarda l’ambito dove l’immagine nasce, cresce e si sviluppa. Andy Warhol trasporta nell’arte l’idea del multiplo, dell’oggetto fatto in serie: l’individuo ripetuto in uomo massa, in uomo moltiplicato portato dal sistema in una condizione di esistenza stereotipata. Al prodotto unico subentra l’opera ripetuta, la cui reiterazione non comporta più un’angoscia esistenziale ma il raggiungimento di uno stato di ostentata indifferenza, che è lo stesso attraverso cui Andy Warhol guarda il mondo e che costituisce la premessa di quel consumo cui la civiltà americana e l’artista stesso non intendono sfuggire. L’occhio cinico di Andy Warhol ci restituisce la condizione oggettiva del ceto medio americano accettata così com’è e per quello che è, poiché i modelli adoperati non sono fuori di quella realtà ma dentro: le facce inespressive dell’uomo-folla gettato nella sua solitudine quotidiana, separato dagli altri uomini; incidenti d’auto; nature morte di fiori psichedelici riprodotte con gelida allegria attraverso il procedimento meccanico della serigrafia. Sono tutte immagini recuperate dallo spazio cittadino: una megalopoli sconfinata e proliferante, portato di una economia in espansione anche oltre i confini degli Stati Uniti. La metropoli è l’alveo naturale dell’Amencan Dream, inteso come sogno continuo di opulenza e di stordimento organizzato dalla merce. La città è un grande happening, un evento incontrollato, in cui le immagini si associano tra loro, si scompongono, si sovrappongono e scompaiono all’interno di un paesaggio artificiale vissuto come l’unica natura possibile dell’uomo moderno. La produzione, sostenuta dal gioco serrato della pubblicità, crea, per soddisfare i propri ritmi, una sorta di fame, un desiderio di oggetti e consumi. Ma la situazione presto s’inverte: ora è l’oggetto a inseguire il soggetto. La città apre la sua caccia sadica all’uomo, in quanto ormai esiste un’inversione di ruoli e una nuova gerarchia di posizioni: la città è il fine, l’uomo il mezzo. Produzione e consumo, opulenza e obsolescenza riguardano anche le zone permeabili della soggettività, le cifre emotive dell’individualità, mosse in quelle che Mitscherlich chiama “i percorsi d’angoscia” del feticcio urbano. La città non è più, infatti, lo spazio delle relazioni interpersonali ma il luogo dello scambio, di un puro passaggio di merci. La merce, infatti, è la grande madre che accudisce il sonno, i sogni e gli incubi dell’uomo americano, che lo assiste in tutti i suoi bisogni, fino al punto di incentivare e creare nuovi consumi. Il lavoro è l’unico tramite che l’uomo può stabilire con la realtà urbana e il suo sistema di accumulo e distribuzione di funzioni. Andy Warhol fa propria più e meglio di altri artisti questa mentalità, rafforzata dalla coscienza puritana che solo ciò che è ben fatto trova affermazione e dunque realtà. Egli assume fino in fondo i margini di divisione del lavoro, delegando al potere politico ogni problema riguardante l’ambito sociale, secondo un ottimismo diffuso dalla nuova frontiera kennediana. Con la rappresentazione della Pop Art, infatti, l’arte americana perde la disperazione dell’Action Painting e i residui esistenziali del New Dada. Ma smarrisce anche quel sentimento dell’arte come possibilità di pensare ancora un riscatto, che aveva animato, invece, la generazione precedente (da Pollock, De Kooning e Kline fino a Rauschenberg, dall’Urlo di Ginsberg al Cut-up di Burroughs e ancora Reinhard, Rothko, Newman). Palcoscenico per antonomasia della Pop Art è New York, già pronta all’inizio degli anni sessanta a trasformare la “società di massa” in “società dello spettacolo”. Qui le immagini accompagnano il viaggio diurno e notturno dell’uomo, irrigimentato nell’ingranaggio produttivo di una macchina che funziona senza sosta, secondo ruoli già assegnati che lo rendono partecipe e soggetto passivo del grande spettacolo della merce. Dato il meccanismo del sistema produttivo, le immagini della città vengono accettate nel loro improvviso narrativo come reali. Perciò la tecnica del sogno diventa il tramite necessario per leggere la città e le sue imprevedibilità. D’altronde il sogno, la sostanza onirica, permea di sé la vita quotidiana della società americana, attraversata da immagini e da merci che affollano il suo panorama visivo e tattile. Come nel sogno le immagini si presentano senza motivazione apparente, così la città propone un campo di oggetti, anche visivi, il cui ciclo produttivo sfugge all’uomo che ne deve subire la presenza. Nel sogno, però, l’uomo è produttore e consumatore delle immagini oniriche, mentre nello spazio della città è doppiamente consumatore, in quanto sottoposto come bersaglio al potere delle sirene, delle immagini accattivanti, e alla successiva tentazione di comportarsi secondo i modelli di comportamento dettati dagli imperativi visivi di dette immagini. La loro proliferazione fonda la misura di una vitalità artificiale, che spinge l’uomo verso un dinamismo coatto e insieme volontario. Da questo deposito imperituro di sogni incalzanti muove lo sguardo lucido di Andy Warhol, per effettuare il prelievo di una singola immagine. Prelievo che non avviene mai in termini critici ma in termini assolutamente operativi e strumentali, per poi seguire il processo creativo dello spostamento semantico e della condensazione. Di questo sogno l’arte diventa il momento di esibizione splendente ed esemplare, la pratica alta che mette sulla scena definitiva del linguaggio lo stile basso delle immagini prodotte dai mezzi di comunicazione di massa, dalla pubblicità e dagli altri strumenti di persuasione occulta ed esplicita dell’industria americana. L’accumulo grammaticale delle immagini è l’effetto di una mentalità che non ha il mito della complessità del mondo ma ha individuato le istanze dell’uomo e necessaria esibizione di tali istanze, collegata alla dimensione non negativa di spettacolarità insita nel sistema sociale ed economico. Così Andy Warhol situa le proprie immagini per associazione elementare, che riflette con cinica disperazione il destino dell’uomo: l’esibizione come esibizionismo quale ineluttabile cancellazione della profondità e riduzione a uno splendente superficialismo. Lo spegnimento della profondità psicologica segna il punto di massima socialità nell’opera di Andy Warhol. Egli ribadisce e accetta lo stato di manipolazione di ogni cosa, senza disperazione, senza possibilità di alternativa, applicando la consapevolezza di una irreversibile civiltà del consumo, cui l’arte può dare una sua classicità. L’artista vive dentro una realtà già definita, in cui ogni prodotto è segno della merce. Confinato nello stato paralizzato di voyeur, dove ogni evento è il portato di un futuro già fissato in una distanza dal mondo diventata a sua volta condizione inerte dell’esistenza. In una realtà così freddamente preordinata nei suoi eventi strutturali, lo stato incerto ed eccentrico dell’omosessualità diventa un varco mobile attraverso cui Andy Warhol tenta, mediante autogratificazioni (il vestire, l’amare, il vivere in comunità concentrate) di affermare la propria identità. In una realtà tecnologica che tende alla moltiplicazione e a moltiplicarsi, l’unica maniera di affermare tale identità è raddoppiare se stessi: il rapporto omosessuale con l’altro uomo. Tale procedimento passa inevitabilmente attraverso lo specchio, attraverso l’onanismo, l’esibizionismo, il narcisismo, per cui ogni rapporto è pura tensione, possibilità bloccata nel suo nascere che definisce l’uomo come semplice voyeur della propria solitudine e del mondo. Anche nei suoi film esiste una permanente dissociazione, estraniazione, disattenzione del personaggio da se stesso, perché questi si muove non soltanto attraverso la falsa tangente della propria libertà individuale, ma anche secondo la rigida meccanica del tempo filmico che tende a fissare il movimento del personaggio come segno della propria dissoluzione. Il destino del personaggio qui è sempre la morte, perché esso interferisce con la dissipazione del tempo filmico, rivolto ineluttabilmente al proprio azzeramento, allo spegnimento, all’entropia. Questo comporta una perdita di senso oggettivo, l’azione, come nel sogno, tende ad accelerare tale processo, le persone e le immagini sono contigue tra loro ma senza poter interferire. In modo perfettamente speculare, la città offre un sistema di segnali emessi dai mezzi di comunicazione di massa e dalla pubblicità, il cui monopolio appartiene non certo all’uomo medio ma alla classe egemone. La società dello spettacolo è, quindi, l’uomo che diventa ombra di sé stesso, produzione di ciò che produce. In definitiva egli diventa, attraverso l’oggetto prodotto e consumato, il proprio doppio, perché in un mondo di consumi e comportamenti standardizzati ogni differenza qualitativa, ogni empito psicologico è annullato. E questo è alla base di un’ulteriore perdita: quella della riduzione dei livelli della psicologia, dei riflessi che trovano nello standard il conforto di una posizione uniforme. Nella società di massa, infatti, il conformismo non è un peccato mortale, non è inteso come mancanza di personalità, bensì come adeguamento del corpo sociale a respirare un’atmosfera unanime. È una maniera di sfuggire lungo la tangente della quantità una solitudine altrettanto quantitativa. Il personaggio di Andy Warhol vive in una inaccessibile distanza da sé stesso che è lo specchio, dove ogni rapporto con il sociale è solamente l’amplificazione della sua solitudine. Il movimento dei suoi film underground rende tutto ciò esemplare, in quanto la tensione dell’immagine e del parlato si costituisce alla fine come puro rumore, in cui non esiste comunicazione tra i personaggi ma soltanto un’assordante presenza che non riesce mai a diventare parola e a costituire lo scambio sociale. Il personaggio vive nel falso movimento, dunque nell’immobilità, soggetto fissato davanti al proprio specchio mortale, come duplicazione della morte filmica e della riduzione di tutto a silenzio. A confermarlo è anche il fatto che non esiste sincronia tra filmato e parlato ma sempre sproporzione. Il parlato si costituisce come spreco e falso prolungamento del silenzio e dell’immobilità, perché non riesce a rimuovere il rigido scorrere del tempo e a sconfiggere la morte, struttura portante del cinema. Il personaggio di Andy Warhol vive rigorosamente e senza alternativa lo spazio prestabilito della morte, il cui sintomo ulteriore è la citazione, la ripetizione di ogni gesto (il pettinarsi, il vestirsi, lo svestirsi, il parlare sotto-conversazione che significa soltanto lo starsi di fronte dei personaggi): si assiste al ribaltamento di questa morte prescritta in inconsapevolezza della morte stessa.

Achille Bonito Oliva, 2013

 

 

 

 

 

MARCIANO ARTE, galleria d’arte e cornici, Napoli

Salvatore Marciano

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