Autore:WARHOL ANDY
N. - M. :Pittsburgh, 1928 - New York, 1987
Tecnica:Poster firmato
Misure:70 x 70 cm
Anno:1981
Classificazione: Moderni, Altro, Figurativi, Figure

«…Quello che conta è il lavoro. C’è chi fabbrica oggetti e altri che sono degli oggetti. Sono le star. Ma tutto è oggetto. [….] Si deve utilizzare tutto. Ma se qualcosa può sparire senza lasciare traccia è affascinante. È per questo che adoro i gangster. È bello essere dei gangster perché si può sparire veramente. […] Mi piace il vuoto. Se cadesse una bomba sarebbe carino. Quando una ragazza si sposa e cambia nome sparisce?» (Andy Warhol: l’horreur des restes interview par Nancy Blake, in “Art press international“, nouvelle serie 9, Juillet 1977)
Il primo oggetto fissato da Warhol nella sua spoglia affermazione di icona proletaria è, nel 1962, la bottiglia della Coca Cola. Messa definitivamente da parte la pittura gestuale dell’Espressionismo Astratto ancora presente in una versione del 1961 del medesimo soggetto, l’artista giunge alla cruda rappresentazione di un oggetto ordinario esplicitamente privo di valori artistici o spirituali, ma capace nel suo essenziale bianco e nero di parlare della nostra società, di dire ciò che siamo. E il motivo è evidente, spiega Arthur Danto, «la bottiglia della Coca Cola è già di per sé un’icona e se come tale si vuole dipingerla bisogna lasciarla così com’è, senza inutili fronzoli». A indirizzare Warhol su questa strada sono i suggerimenti di Muriel Latow, Emile de Antonio e di Ivan Karp da una parte, dall’altra le mostre di Jasper Johns e Roy Lichtenstein organizzate allora da Leo Castelli. La direzione è chiara: «La rivoluzione consisteva nell’intuizione profonda di ciò che veramente siamo: quel tipo di persone che desiderano quel tipo di felicità che la pubblicità promette di offrirci, facilmente e a poco prezzo». Questa pittura icastica nel linguaggio quanto una pubblicità e dai contenuti del tutto familiari all’uomo medio americano cancella d’un colpo ogni separazione tra arte e vita, tra arte popolare e arte seria e, soprattutto, tra artista e pubblico, i gusti e valori dei quali non solo vengono a coincidere ma diventano inseparabili. Questa rifondazione dell’idea stessa di Arte Danto la riconosce compiutamente sviluppata da Warhol nelle Campbell’s Soup Cans esposte nel 1962 alla Ferus gallery di Los Angeles e nelle “metafisiche” riproduzioni tridimensionali in legno delle Brillo Boxes impilate nel 1964 alla Stable gallery di New York come in un supermercato In questi stessi anni diversi artisti americani incentrano la loro attenzione sul rapporto arte vita, operando nello spazio che ancora le divide (il caso, il divenire, i segni convenzionali della città) o servendosi, per realizzare un’opera, di qualsiasi cosa sia legata alla presenza pervasiva della cultura consumistica del dopoguerra, che con il suo immaginario meccanico e le sue merci industriali ha assunto un controllo totale sull’esperienza collettiva del mondo e sulla stessa rappresentazione visiva. La domanda allora è: cosa ha fatto di “Andy-Drela” un personaggio non solo integrato nella cultura che la sua arte celebra, ma l’unico artista americano il cui viso sia, oggi come allora, riconoscibile all’istante?
I drip painting di Jackson Pollock avevano lasciato in eredità un paradosso da sciogliere: quello di un segno pittorico che si fa tanto più spersonalizzante e anti-autoriale quanto più è libero e spontaneo. Perché attingeva al momento aurorale dell’uomo, lì dov’è il limes (che è separazione ma anche tangenza) tra biologico e psichico, tra fisico e mentale: in quei 20 secondi dopo l’essere venuti alla luce e prima ancora dell’attivazione del respiro, in cui il corpo è inerte, il cervello compie il primo movimento e le differenze di genere per quanto presenti non agiscono. Per cui alla nascita tutti gli uomini sono necessariamente uguali: c’è solo un silenzioso alternarsi di sonno e veglia, immagini sfocate e recettività di tutto il corpo attraverso la pelle. Ma queste sono conoscenze che saranno sviluppate solo più tardi (da Massimo Fagioli, tra il 1962 e il 1970), per cui l’enigma Pollock all’epoca è indecifrabile, razionalmente parlando. Proprio per rispondere alla sua sfida, Robert Rauschenberg e Jasper Johns coniugano l’immaginario dell’objet-trouvé e le procedure del disegno meccanico proprie del Dadaismo con il segno pittorico, inteso quale “astrazione gestuale espressiva” della propria interiorità, capace di innescare nel fruitore suggestioni e rimandi immaginativi. Diversamente, Warhol si fa carico dei legami tra l’estetica dell’arte e l’estetica della produzione industriale che caratterizzavano insieme alla distruzione dell’autore, dell’aura e della manualità il Dada newyorkese (Picabia e Man Ray in particolare), ma adotta come ready made intere pagine di quotidiani con la loro impaginazione testuale a colonne, l’urlo dei titoli e le immagini di bassa qualità, promuovendo questo materiale preconfezionato e predigerito alla dignità dell’arte attraverso la scelta dell’artista. Il passo successivo è assumere il messaggio fotografico della stampa popolare decurtandolo della didascalia che in genere ne orienta l’interpretazione. Warhol capisce meglio di altri che la fotografia può lasciare spazio all’ambiguità e persino all’astrazione, che egli scopre già pronte all’uso non nella pittura ma nelle tecnologie riproduttive che quotidianamente contribuiscono a dare forma narrativa alla storia contemporanea Puntando sulla intrinseca difficoltà semiotica, Warhol la apre a un più ampio valore allegorico, patrimonio, fino a quel momento, dell’Astrattismo.
Proprio la natura meccanica e ripetitiva del processo tipografico di stampa ispira nel 1962 una delle pratiche artistiche più innovative messe in campo da Warhol, ossia il procedimento serigrafico, con il quale egli amplifica l’ambiguità e indeterminatezza insite nel messaggio fotografico dei giornali. La chiarezza iconica del medium è, infatti, del tutto assente nelle imperfette trasposizioni di immagini massmediali compiute da Warhol sin dall’agosto del 1962. L’operazione di selezione da un materiale già pronto mette l’artista nelle condizioni di farsi creatore dei miti della sua epoca, dei quali continuamente elabora, cancella o aggiunge elementi. Il carattere mitologico o più popolarmente favolistico sotteso dalla ricerca di Warhol è testimoniato dalla preferenza da questi accordata al linguaggio sensazionalistico, alle mezze verità e alle foto ritoccate dei tabloid, nei quali realtà e finzione s’intrecciano fino a confondersi. Una scelta che indubbiamente mette in discussione la pretesa della stampa di rappresentare la verità e la convinzione dei lettori/spettatori di (ri)conoscerla, sia nei media sia nell’arte. Infine, il processo serigrafico permette a Warhol di compiere un ulteriore passo verso la spersonalizzazione dell’opera, benché il suo nuovo stile all’apparenza impersonale diventi immediatamente riconoscibile, proprio come era accaduto ai dipinti neoplastici di Mondrian o a quelli suprematisti di Malevich all’inizio del 900. Questo e le potenzialità mitopoietiche delle immagini massmediali sono, nello specifico, gli elementi che conferiscono all’arte di Warhol un mordente straordinario su un pubblico newyorkese avido di nuovi “prodotti” pittorici da esporre, collezionare, capitalizzare come fashionable status symbol.
Nel 2009 il Grand Palais di Parigi ospitava una grande retrospettiva intitolata Le Grand Monde d’Andy Warhol che raccoglieva ben 250 ritratti di attori, cantanti, sportivi, stilisti e magnati dell’editoria realizzati dall’artista dagli anni 60 fino al 1987, anno della sua morte. In una surreale mescolanza di oggetti sacri e profani, alti e bassi del desiderio collettivo, si confrontavano vis à a vis icone politiche e dive di Hollywood, eccentrici sconosciuti dell’underground newyorkese e vip del jet set internazionale moltiplicati in serie diverse, a partire da una stessa immagine ogni volta leggermente diversa nelle varianti iconografiche o cromatiche.
Negli anni dell’arte engagé, i Vanity Portraits di Warhol riportano in auge un genere divenuto secondario, costituendo la maggiore fonte di reddito dell’artista, che può così glossare la propria attività: «Ho cominciato come artista commerciale e voglio finire come artista del business. Dopo aver fatto la cosa chiamata “arte”, o comunque la si voglia chiamare […]». Warhol lavora a partire da immagini fotografiche di bassa qualità, ossia del tutto prive di residui artistici, come le fototessere sviluppate dalle cabine fotografiche automatiche e, dall’inizio degli anni 70, gli scatti della sua Polaroid Big Shot ormai entrati nella storia dell’ Arte. Queste istantanee, fatte stando a un palmo dal viso del modello, sono gli schizzi di Warhol, i disegni preparatori per I suoi ritratti serigrafici. Vincent Fremont che lavora a stretto contatto con Warhol dal 1971 racconta che l’artista usava invitare a pranzo i suoi committenti per farli rilassare, poi li faceva sedere davanti a un muro per video-intervistarli e poi fotografarli. Insieme a loro sceglieva colori ed effetti grafici del ritratto e, poiché ognuno ha il diritto di apparire bello, li truccava e ricorreva al flash per attutire rughe e difetti della pelle. Il fine era ottenere immagini che fossero il più possibile polite e compositivamente equilibrate all’interno del formato quadrato standard di 101 x 101 centimetri, rese pittoriche da veloci pennellate o dalla sovrapposizione di campiture di colore piatto, entrambi discordanti rispetto alla silhouette della figura serigrafata. Nonostante il ritratto su commissione implichi, almeno all’inizio, un rapporto diretto con il soggetto, Warhol non rap presenta bensì riproduce quei volti a partire da un singolo prototipo che funge da cliché, non da un originale. Non gli interessa restituire le fattezze reali della persona, quanto piuttosto offrire modelli ideali (come nella pubblicità e nelle orazioni funebri) e il colore, eccessivo e irreale, serve appunto a spazzare via ogni traccia di realtà. Quel che rimane della vita di quei corpi ” disincarnati” è un’immagine impalpabile e precaria quanto la pellicola di inchiostro serigrafico che la contiene. Declinando il culto della personalità a prodotto di marketing, Warhol fonda la loro trasfigurazione in icone pop di nuovo conio. Non sorprende che tra i principali collezionisti di Warhol, tanto negli Stati Uniti quanto in Europa, vi siano imprenditori, industriali e pubblicitari, che nella sua opera si riconoscono e la interpretano quale legittimazione culturale del loro successo. Di contro, nonostante gli esordi bohémien nell’area creativa della controcultura giovanile, Warhol insegue il riconoscimento nei mass media e aspira al glamour, che solo il successo commerciale dispensa, sin dai tempi in cui vive a Pittsburgh ed è solo il figlio di immigrati cecoslovacchi di bassa estrazione sociale, penalizzato nell’aspetto fisico e da preferenze sessuali inaccettabili in un’America ancora omofobica e mora-lista. A causa dell’emarginazione sperimentata in gioventù, nell’ambito delle sue creazioni Warhol riesce a coniugare la visione imprenditoriale del mondo tardo capitalista con il senso d’impotenza proprio di chi, consumatore, di quella visione è la vittima prestabilita. La calcolata indifferenza della prima si compone con la rassegnazione dei secondi, che nell’opera di Warhol possono vedere riflessa come in uno specchio la loro condizione di uomini cancellati come soggetti, esclusi a priori dall’accesso a una «dimensione di resistenza critica»
Nonostante abbiano alle spalle precedenti importanti, le tele completamente serigrafate che Warhol espone per la prima volta nel novembre 1962 a New York nella Stable gallery di Eleanor Ward fanno scandalo: per l’iconografia da supermercato, la tecnica della rappresentazione e l’abolizione di ogni gerarchia di soggetti meritevoli di celebrazione pittorica.
Tra le opere in mostra sono ritratti dei divi dello sport, della scena rock e di Hollywood più noti e amati dal pubblico, prontamente individuati da Warhol come figure essenziali della coscienza collettiva di una società di massa che già si avvia a divenire “società dello spettacolo”, , secondo la felice locuzione coniata da Guy Debord nel 1967. La cosa particolare è che si tratta di opere concepite non in rapporto a individui reali, bensì attraverso il processo meccanico di riproduzione di un’immagine “trovata”, residuale, della comunicazione massmediatica, per cui la persona scompare dal procedimento artistico. Esattamente come succede al suo autore, dal momento che il mezzo meccanico e ripetitivo usato rende ancora più difficile l’individuazione della sua mano all’interno dell’opera. L’artista sparisce, letteralmente, «nel mezzo espressivo indessicale della fotografia» che egli stesso ha selezionato nella congerie di notizie riprodotte e trasmesse 24 ore su 24. Ma selezionare – insegna la pratica giornalistica – significa vedere un avvenimento in un certo modo, il che equivale a nascondere altri suoi aspetti. E lo stesso Warhol a suggerire che sia stato l’annuncio del suicidio di Marilyn Monroe a dargli, nel 1962, l’idea di realizzare serigrafie del suo viso. In seguito, in perfetta sincronia con gli accadimenti della cronaca, nascono i ritratti di John F. Kennedy morto nell’attentato di Dallas e della novella vedova Jackie; Mao Tse-Tung, nemico giurato degli Stati Uniti esorcizzato dopo la visita di Nixon in Cina del 1972, Liz Taylor ricoverata nel 1984 in ospedale. Fissati nella loro assenza di maschere mortuarie, questi volti sono simulacri di una vita maledettamente già trascorsa e quasi irreale, trofei di una promessa d’eternità a disposizione di molti ma non di tutti. In tal senso le due serie accostate, una multicolore l’altra in bianco e nero, del Marilyn Diptych (1962, Tate Gallery, Londra) sembrano proprio registrare in una sequenza di fotogrammi in successione temporale il progressivo svanire dell’immagine di Marilyn, concedendole di accedere attraverso la sparizione alla dimensione di mito contemporaneo e, infine, di immagine interiore dell’inconscio collettivo che abita la vaghezza della memoria involontaria.
Sulla spinta emotiva prodotta da quella strana morte inattesa, Warhol compie qualcosa che non sarà più in grado di ripetere nelle opere successive: liberare il suo fantasma fotografico dall’ecolalia della foto-ricordo. Pier Paolo Pasolini per primo, nel 1975, intuisce essere la trascendenza orientale e la ieraticità delle icone bizantina alle origini della ritrattistica warholiana e in particolare dell’iconografia della Golden Marilyn (The Museum of Modern Art, New York): per l’assenza di ogni soggettivismo; la ripetibilità programmatica di un simbolo predefinito e codificato; lo spazio in(de)finito in cui galleggiano quelle spoglie metropolitane di una vita eternamente sorridente. Allora non era di pubblico dominio, ma il cordone ombelicale mantenuto tutta la vita da Warhol con la madre Julia, devota credente di cultura e lingua cecoslovacca, e con la Chiesa è oggi cosa risaputa. Se le icone antiche hanno, però, come fine quello di rendere percepibile ai cinque sensi dell’uomo qualcosa di tanto immateriale e invisibile quanto l’idea del sacro, in Warhol l’immateriale e l’invisibile coincidono con il niente che è niente. Il nulla non tarda ad acquisire una dimensione spaziale nelle tele monocrome vuote che affiancano alcuni dipinti del 1963 come Mustarde Rare Riot, Blu Electric Chair o Silver Disaster #6 (Double Silver Disaster), ottenendo dall’accostamento un effetto ancor più stridulo di violenza fisica e fulmineo silente annullamento, morte-e-nulla eterno. Da un analoga dialettica cruda e irrisolta di presenza-assenza scaturisce la struttura luttuosa dei ritratti di Warhol, che sotto le spoglie di volti indiscriminatamente giulivi insinua un messaggio intimidatorio di memento mori e attraverso il meccanismo del compianto offre al pubblico un oggetto desiderabile con cui identificarsi, mimetizzandosi nel suo stereotipo, assumendo – contro le delusioni e le brutture del mondo – la maschera ipocrita della persona apparentemente riuscita. Dare un volto nel momento in cui si presuppone un’assenza significa creare un cortocircuito, che non fa fare più distinzione tra la morte e la vita, tra essere e non essere. Esporlo implica il pensiero che il volto originale (l’immagine interiore che fa identità) si può perdere o può non esistere più, proponendo come normale rimedio quello di dissimulare l’inconsistenza della propria dimensione umana dietro un maquillage tanto sgargiante quanto estraneo alle cose. L’errore di Narciso, racconta infatti Ovidio nelle Metamorfosi, è vedere un’immagine laddove non c’è un corpo o negare a quest’ultimo l’immagine corrispondente. Perciò Narciso non si riconosce nel riflesso dell’acqua. La scissione tra immagine mentale e corpo significa perdita di rapporto con la realtà fisica e lo specchio, allora, non rimanda più nulla, come accade alla vernice color argento con cui Warhol cancella nel 1964 il murale Thirteen Most Wanted Men all’Esposizione Universale di New York. Ma il nitrato e il cloruro d’argento sono anche gli agenti chimici che intervengono nella creazione dell’immagine fotografica, per cui acquista una luce particolare la teoria di Molly Dono-van secondo la quale, assumendo i mezzi d’informazione come superfici riflettenti della realtà contemporanea e riproducendone il linguaggio, le opere di Warhol ci spingerebbero a riconoscere il nostro volto nelle storie raccontate dai media e riecheggiate nella sua arte. Quei brani di realtà riflettono la nostra immagine, ma noi come Narciso non la riconosciamo come tale. Per coincidenza, nello spettacolo Exploding Plastic Inevitable (EPI), prodotto da Warhol nel 1966, Nico dei Velvet Underground non canta, per l’ap-punto, «’ll Be Your Mirror»? Sospendendo il giudizio sulla persuasività o meno di tale interpretazione, certo è che il vuoto è, prima di tutto, negli occhi senza affettività di Narciso, incapaci di vedere la profondità dell’altro, gli umori, la sostanza del corpo di Eco, lasciando alla ninfa mortificata nel desidero la bramosia quale unica possibilità di essere in rapporto. Ma che succede quando l’oggetto del desiderio non solo non è disponibile ma, propriamente, non è (perché finto o biograficamente morto, perché espunto dal processo creativo della rappresentazione) se non con la sua assenza invadente? In un’intervista rilasciata nel 1967 a Gretchen Berg su “Cahiers du Cinéma” l’artista spiega con candore che la gente in genere va al cinema per vedere il divo e divorarlo, per cui nei suoi film dà modo agli spettatori di guardarlo tutto il tempo che vogliono, indipendentemente da ciò che fa, e di divorarselo a piacimento. Nel 1977, in occasione di una intervista per “Art Press” [citata in apertura di questo scritto, ndr.] Warhol tratteggia una società di oggetti da desiderare, possedere, usare fino alla consunzione: spariti, come se non fossero mai esistiti. In un mondo di bocche fameliche il travestimento e il mimetismo diventano i mezzi possibili di sopravvivenza. Ma sono mezzi nocivi e, in fondo, suicidi. Warhol assume in primis la mimetizzazione come propria strategia di sopravvivenza sin dagli headline works realizzati a cavallo degli anni 50-60 ricopiando e manipolando intere pagine di giornali. Ad essa fa da contraltare, avverte Yve-Alain Bois, una «voyeuristica dissimulazione», che Warhol porta a compimento nei Camouflage del 1986 eseguiti a metratura da un unico modello e, ancor più, nei ritratti e autoritratti camouflage che esplicitamente celebrano l’arista capace di essere ovunque e da nessuna parte al tempo stesso. Nella scelta della tela militare come supporto, essi rivelano anche la natura aggressiva di questo processo di mimetizzazione, segnando una profonda crisi della soggettività, dal momento che il vedere condivide, da sempre, un nesso forte con il concetto di potere. E vedere tutto senza essere visti da alcuno è, propriamente, la condizione di dio o dell’Uomo invisibile di James Whale. Concludendo, presto il volto di Marilyn diventa per Warhol l’immagine allo specchio di se stesso: piatta, disincarnata, inesistente eppure capace di una seduzione medusea che induce nell’altro una condizione di uguale svuotamento della sensibilità, per cui ogni giudizio si presenta inficiato dal dubbio amletico. Il primo l’indeterminatezza sulla propria identità sessuale. Ma, cosa più importante, è l’incapacità di distinguere vero e falso, vita e morte. Dal momento che non si prova più niente, tutto diventa irreale. A raccontarlo è lo stesso artista in Filosofia di Andy Warhol: dalla A alla B e viceversa, pubblicato nel 1975, dove scrive: «Prima che mi sparassero, avevo sempre pensato di essere più di là che di qua, avevo il sospetto di guardare la televisione anziché vivere una vita […] Nei film le emozioni sembrano vere e potenti, mentre quando la stessa cosa ti accade davvero, è come guardare la tv: non provi niente. Proprio quando mi hanno sparato e da allora in poi, ho capito che stavo guardando la televisione» .
In Cuore di vetro di Werner Herzog (1976) la morte del mugnaio, che custodisce il segreto della produzione del vetro color rubino, è causa della chiusura della fabbrica e della caduta in disgrazia del villaggio, che su quell’attività fonda la sua economia. Herzog adombra nel vetro rosso l’intuizione di una realtà nascosta di vitalità da recuperare, ma il padrone della vetreria crede, materialisticamente, di trovarla nel sangue della giovane serva Ludmilla, il cui sacrificio diventa «il necessario cibo per sostenere il morto che non riesce a morire». Analogamente ai personaggi in trance di Herzog, l’assoluta fissità dei volti ritratti da Warhol è speculare alla fissità dei loro contenuti. Sintomo, in entrambi, di una vita vissuta in modo troppo passivo o statico all’interno della cultura dominante, senza riuscire a “vederla” dall’alto (come fa invece il profeta-pastore Hias) e a farne, dalla giusta distanza, un’immagine complessiva che permetta non solo di conoscere ma anche di comprendere.
Tornando alla questione iniziale, per cui la rivoluzione di Warhol consisterebbe nell’intuizione di ciò che siamo, la domanda è: fu intuizione esatta della «nostra natura universale» o non fu, piuttosto, accettazione dello statu quo, ossia le condizioni di consumo imposte dall’industria e i condizionamenti della cultura con i suoi debiti verso il Logos occidentale e la tradizione cristiana? A ben guardare il successo straordinario ottenuto da Warhol poggia sulla confusione (comoda a pochi e nociva a tutti) tra ciò che è vero e ciò che è reale, ossia prodotto contingente della storia, non avendo egli saputo intuire nella carne dell’uomo quella capacità innata d’immaginare, che non solo è pensiero ma anche possibilità di ripensare sé stesso e il mondo.