Autore:PLACIDO ERRICO
N. - M. :Napoli, 1909 - Portici, 1983
Tecnica:Olio su tavola
Misure:45 x 54,5 cm
Anno:1951
Classificazione: Marine, Figurativi, Oli, Classici, Paesaggi
Placido Errico — comunemente noto come Placido — ha egli stesso dettato un epigramma a esplicazione della sua pittura. Vi si dice fra l’altro: «Ho cercato di carpire al tempo briciole di vita; di registrare l’eco del mare; di cogliere il vasto respiro della mia terra; di esaltare la fatica degli umili; di confortare il dolore della mia gente». Sono parole schiette, scevre d’ogni incrostazione retorica, che, al pari di una confessione, illuminano intorno a un uomo e a una pittura.
Intorno a un uomo che s’avvale della pittura per evocare l’oggetto costante del suo amore: Napoli.
Placido, infatti, deve essere annoverato fra gli interpreti più puntuali di Napoli, di un paesaggio dove la solarità mediterranea par di continuo naufragare nella malinconia, e della gente di Napoli, all’apparenza sorridente e chiassosa ma in effetti pregna di quella stessa malinconia.
Nulla dunque, nella pittura di Placido, è contaminato dal plein-air di maniera che svilisce l’immagine nei limiti brevi di un genere «pittoresco», il vizio più manifesto che alligna nella sottocultura artistica non solo napoletana ma italiana; e nulla vi viene riportato in forza di epidermica istintualità, di approssimativo baluginamento.
Essa si palesa per contro pittura meditata e sofferta, per intero dischiusa ai sensi profondi e riposti che la realtà disvela all’artista. Pittura anche per lui, come per ogni altro vero artista, intesa come gesto «necessario» giacché, dipinto dopo dipinto, corrisponde a una esigenza interiore maturata nel muto colloquio che quotidianamente l’artista imposta col mondo che lo circonda e dal quale trae linfa alle sue giornate.
E pittura che si legittima in ragione dell’umanità con cui cadenza il messaggio che volta a volta ci porge, così da rafforzare la propria consistenza, resistendo indenne al tempo mutevole e al mutevole giostrare del gusto.
A far breve il discorso, il pregio che caratterizza l’opera di Placido è originato dalla facoltà propria dell’artista di accordare un particolare momento del reale a un momento del suo spirito, e perciò di conferire all’immagine la pregnanza di una esperienza la più intima ed intensa.
Rilevare tale tratto identificativo significa altresì evidenziare la costante attenzione posta da Placido sulle modalità del linguaggio, ch’è quanto dire sulla elaborazione di mezzi espressivi idonei a sottrarre quell’immagine al profilo fuggevole del trompe-l’oeil per definirla nell’esatta calibratura del trompe-l’esprit.
Sarà appunto questo trompe-l’esprit — questo puntuale accordo fra interno ed esterno, fra realtà e interiorità, insomma questo modo di vivere il dato reale — a lumeggiare l’atteggiamento assunto da Placido nei confronti del territorio prediletto: il metro della sua intelligenza e, insieme, della sua partecipazione emotiva. Proprio per tale ragione, all’inizio di questa nota s’indicava in Placido un fedele interprete di Napoli.
Un interprete non univoco, tuttavia, non fermo a quella unicità di recepimento nella quale si cela il pericolo di una standardizzazione di maniera, ma che molte corde arpeggia invece, nella adesione alla pluralità di aspetti napoletani: sì da trapassare da un eccitato empito panico a ripiegamenti nella tristezza e nel dolore.
Poiché sempre in Placido, sia pure in gradualità diverse, preme un dolente patire, una sottile mestizia che ossida il cielo e il mare, quel senso della caducità delle cose che rabbuia persino la sorpresa per una minuscola grazia inattesa; poiché sempre è in lui presente la consapevolezza dell’inevitabile fluire dell’esistenza verso una caduta irreparabile, verso il baratro cupo dell’enigma.
In tal modo, dinanzi allo sguardo dell’osservatore, trascorrono le molteplici effigi della realtà partenopea: figure di giovani donne nelle quali la speranza pare opacarsi al fiato di un presentimento di dolore o figure di donne già adulte sulle quali crudelmente si depositano i segni stinti di rare gioie e di troppe sofferenze. Anche figure di poveri teatranti, di clowns straccioni, di malinconici Pulcinella che negli slarghi di Forcella o Spaccanapoli, o nei cortili di antichi palazzi in rovina, tentano ancora un ultimo spettacolo per donare una risata fittizia in cambio di un tozzo di pane e una scodella di minestra: un anfratto della società napoletana che Placido è uso scandagliare con particolare frequenza, forse nel ricordo di personali seppure remote vicissitudini le quali trasformano la sua adesione a quei protagonisti in un tenero atto d’amore.
I temi che questo fecondo artista predilige non si concludono però in quest’arco pur vasto di motivi. Ancora si dipanano notazioni ambientali che, per rapidi tocchi, intonano un clima sedimentatosi nei giorni, negli anni, o, accostando oggetti domestici, adombrano una storia di monotona povertà tuttavia riscattata da una ostinata — meravigliosamente ostinata — aspirazione alla gentilezza, emblematizzata in un fiore, in una trina, in un povero monile come reliquia conservati.
E i paesaggi, infine, si sgranano come perle preziose di un rosario: soprattutto le marine, nelle quali Placido si esplica in tutta potenza espressiva, ora abbandonandosi nella gloria del sole con l’intensità di un abbraccio panico ed ora invece traducendo il cielo e il mare quali elementi chiusi in una terribilità minacciosa e corrusca, ostili all’uomo e alle sue fatiche; e quindi scorciando un angolo di porto dove giacciono oscure chiglie di natanti simili a relitti restituiti dalla tempesta oppure dilatando gli spazi fino a quell’estremo orizzonte colto quale soglia di un mistero insondabile.
Questi dipinti — realizzati mediante un colore che scorre denso a far plastica ogni connotazione — compongono il lungo diario del nostro pellegrino del golfo. Un diario che di Napoli ci restituisce il volto più vero. Un diario che, in luogo d’essere attendibile quale documento sociologico, è rivelatorio quale documento poetico.
Giacché anche per Placido è possibile affermare che l’opera si insedia nel dominio incorrotto della poesia.
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[…] Errico Placido è essenzialmente un osservatore sincero della natura e delle cose familiari ai suoi occhi esercitati nella esperienza della forma e del tono, che ne è il fondamento intimo. Ogni suo motivo ispiratore del mare, della campagna, dei fiori — come in questa mostra — trova una rispondenza semplice e immediata nella sua tecnica robusta, che gli permetta agevolmente di realizzare la visione intensa di un paesaggio o di una figura ambientale, che respiri nella propria atmosfera. Perciò i suoi soggetti sono pittoricamente reali, egli possiede dunque il requisito primario del pittore, il solo che autorizzi positivamente tale qualificazione.
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Nato il 5 ottobre 1909 a Napoli, risiede a Portici (Napoli) in Corso Garibaldi, 233. Ha partecipato a numerose mostre, tra le quali: Quadriennali di Roma; Maggio di Bari; Premio Michetti; Premio di Città di Melfi; Mostra nazionale Città di Frattamaggiore; II Rassegna d’Arti figurative nel Mezzogiorno; Premio Scipione di Macerata; Premio Isola d’Ischia; Mostra nazionale di S. Benedetto del Tronto; Mostra Città di Grosseto; Mostra Città di Ancona; Mostra Marina di Ravenna; Premio Terni; Mostra Città di Brindisi; Mostra Città di Caverzere; Premio Posillipo; Mostra di Ferrara; Mostra Città di Alatri; Mostra di Pittura Olivetti; Premio di Pittura Carlo della Penna; Vasto; Premio Villa San Giovanni; Mostra nella Galleria di Pablo Picasso. Ha tenuto Personali a: Napoli, Sulmona, Roma, Milano, Stoccolma. Ha conseguito, fra i vari premi: Premio Banco di Napoli; Premio Mostra Sindacale del 1938; Premio acquisto Michetti; Premio Città di Melfi; Premio S. Benedetto del Tronto; Targa d’argento Marina di Ravenna; Coppa d’argento Mostra Città di Brindisi; Coppa d’argento Premio Posillipo; Medaglia d’oro Mostra Olivetti, Hanno scritto dì lui: Barbieri, Girace, Schettini, ecc…