Autore:CASCIARO GIUSEPPE
N. - M. :Ortelle, 1863 - Napoli, 1941
Tecnica:Pastello su carta
Misure:17 x 27,5 cm
Anno:1908
Classificazione: Paesaggi, Figurativi, Altre Tecniche, Antichi, Classici
Per il Maestro Giuseppe Casciaro ero persona di casa: mi aveva accordata da molti anni la sua affettuosa amicizia, trattandomi con quella semplicità di modi di cui sono capaci soltanto i grandi artisti.
Lo avevo conosciuto la prima volta in un tardo pomeriggio autunnale, polveroso e carico di foglie gialle, a Castellammare di Stabia, nelle aule di un edificio scolastico che sorge quasi alla periferia del paese, dove era stata allestita la mostra di pittura dell’omonimo Premio, che fece accorrere nella ridente cittadina pattuglie di pittori da ogni regione d’Italia.
Il Maestro, allora già vecchio, con quei suoi capelli argentei e quei suoi baffi scompigliati — che, come dice il mio amico Schettini, facevano venire in mente i suoi pastelli — mi apparve come un nume annuvolato, laconico e scontroso, ed anche un tantino insofferente.
Passava in rassegna i quadri, accompagnato dalla sua diletta figliuola Giovanna, borbottando tra i baffi qualche frase che io stentavo ad afferrare; e passava oltre, rapido, nervoso, calcandosi in testa, d’improvviso, il cappello a cencio che teneva in mano e che, evidentemente, doveva dargli non poco fastidio.
Ad un certo punto si fermò di botto, e fissandomi con quei suoi begli occhi cerulei, mi disse: — Indubbiamente qui i pittori napoletani sono i migliori. Per fortuna lo ha capito anche il «vostro» Ettore Tito.
Il famoso artista veneziano, poiché nativo di Castellammare di Stabia, era stato nominato Presidente della commissione giudicatrice.
Avvertii in quel «vostro» un po’ d’ironia.
Dopo un poco, sempre con quel suo modo di parlare precipitoso e perentorio, aggiunse: — Non mi è simpatico il «vostro» Ettore Tito.
Rimasi sorpreso e perplesso.
Allora ero molto giovane e non potevo capire le ragioni per cui il Maestro si esprimesse in quel modo nei confronti di un artista che noi ritenevamo una specie di semidio.
Dopo la visita alla mostra, lo accompagnai in un caffè, dove avemmo agio di conversare a lungo; e durante la conversazione, che fu cordiale e calorosa, mi accorsi che quella sua apparente scontrosità nascondeva un temperamento di uomo delicatissimo, generoso, amabile, e piuttosto timido.
Tra gli alberi della villa comunale il giorno moriva, scenograficamente, tra rossi bagliori e rintocchi di campane.
Divenni suo amico devoto; e lo rividi spesso, a casa sua, in quella sua grande casa ospitale, frequentata in altri tempi da Mancini, da Gemito e da tutta una schiera di artisti anziani e giovani: lo rividi nelle grandi mostre di Roma e di Venezia, puntualmente, con lo stesso entusiasmo di quando aveva venti anni; ed ascoltavo i suoi discorsi, i suoi giudizi improvvisi, che avevano la rapidità dei segni nervosi che tracciava con mano febbrile nei suoi cartoni. Ormai conoscevo tutta la sua opera, scaturita senza mediazioni cerebralistiche dagli impulsi dell’emozione e della fantasia.
Serena, ilare, primaverile la sua arte, e tutta sospesa tra una realtà gioconda di natura agreste e marina, ed una fantasia mite di calmi stupori; un’arte che non ebbe ambizioni smodate e impossibili, ma che volle restare, umilmente, nei suoi limiti naturali, raggiungendo la perfezione e rivelando, in tanti canti, misurati e compiuti, una potente personalità. Il pastello, come tutti ormai sanno, fu reinventato da Casciaro, e riportato su di un piano di dignità artistica elevato, con una tecnica efficacissima di fronte alla quale quella dei suoi predecessori, dico di Michetti e di Sartorio, appare perfino impacciata e stanca. Esso acquista la robustezza e la pastosità dell’olio, e tutte le sfumature, le delicatezze che questa materia può dare, aggiungendovi una luminosità inconsueta ed il senso dell’atmosfera ventilata o calma.
Fu un paesista singolarissimo.
Antonio Mancini, come ci riferisce Alfredo Schettini, di fronte alla produzione casciariana — che ai suoi occhi di vecchio bambino appariva come una costellazione di pastelli colorati splendenti come gemme — non poteva trattenersi dall’esclamare: — Peppino mio, tu sei un Vesuvio! Ma invece di eruttare fuoco e lapillo, vomiti perle e turchesi, smeraldi e rubini insieme a una pioggia di rose!
Ma la verità è che Giuseppe Casciaro, non «vomitava perle e turchese, smeraldi e rubini»: sapeva invece, nei suoi momenti di grazia, riordinare la natura a modo suo, da poeta, sovrapporsi ad essa, in modo spesso tirannico, come sanno fare appunto soltanto i grandi artisti — un Corot o un Giacinto Gigante — ubbidendo, istintivamente, alle leggi di un loro codice interiore.
Le mie visite in casa Casciaro erano frequenti. Spesso trovavo il Maestro nel giardino con le cesoie in mano, tutto intento a potare gli alberi.
Scherzoso, allegro, non privo di qualche civetteria, canticchiava, motteggiava, aggirandosi tra gli alberi; e quella sua bella chioma bianca brillava tra il verde delle foglie.
Un mese prima della sua morte, andai a trovarlo. La villa era silenziosa. La casa muta. Il Maestro Giuseppe Casciaro in quella solitudine di stanze, dove le sue opere a centinaia dalle pareti commentavano le tappe della sua felice ascesa, mi apparve mutato, tutto immerso in una certa aria di malinconia. Parlò poco, a scatti, con quel suo modo precipitoso che faceva pensare alle grafie rapide dei suoi pastelli; ed ascoltò i miei discorsi, astratto e nervoso, brancicando di continuo sul tavolo presso il quale eravamo seduti, e tastando con quelle sue dita frenetiche ora un oggetto ora un altro, come chi voglia distrarsi da una segreta pena. Non era di umore buono. Me ne accorsi subito. Nel suo volto si leggeva una strana inquietudine. Gli parlai della sua ultima mostra personale alla Quadriennale di Roma, dove egli aveva raccolto, con un rigore critico esemplare, la parte migliore della sua opera; e della ammirazione che avevano suscitato i suoi pastelli nell’ambiente artistico romano. Si schermiva con rudezza, e ripeteva tra rassegnato e scontento: — Ora tocca ai giovani. Noi abbiamo fatto quel che abbiamo potuto.
Nella stanza cadeva d’improvviso il silenzio. Era già sera; e nel cielo, tra nubi sbandate, brillavano le stelle autunnali.