Scuola di Posillipo, Veduta de la Villa Gallo. Capo di Monte.

Autore:SCUOLA DI POSILLIPO

N. - M. :Napoli, Sec. XIX

Tecnica:Olio su tela ovale

Misure:30 x 36 cm

Anno:1874

Classificazione: Paesaggi, Oli, Figurativi, Antichi

Note Critico - Biografiche

Scuola di Posillipo 

 

Veduta de la Villa Gallo. Capo di Monte. 

 

Dipinto ovale di autore anonimo napoletano del XIX appartenente alla Scuola di Posillipo raffigurante la veduta di Villa Gallo a Capodimonte. Napoli, 1874
“Veduta de la Villa Gallo. Capo di Monte” Olio su tela ovale 30×36 cm del 1874

 

Villa Gallo a Capodimonte

 

 

Villa Gallo o Villa della Regina Isabella

 È conosciuta come Villa Gallo dal nome del ministro che la possedette durante il Decennio Francese, e anche come villa della Regina Isabella, in quanto in seguito appartenne alla regina madre Isabella di Borbone, vedova di Francesco I. Profondamente alterata, la villa ospita attualmente la casa dei padri rogazionisti. Vi si accede dal viale dei Pini attraverso un vialetto ed è fronteggiata da uno slargo alberato, unico residuo del vasto antico parco che la circondava. Le prime notizie del suo nucleo primitivo risalgono al XV secolo. Nicola Pomarino, agiato funzionario regio, acquistò nel giro di pochi anni, tra il 1465 e il 1473, numerose particelle confinanti, costituendo una vasta tenuta comprendente più o meno l’attuale rione La Pineta ai Colli Aminei (area un tempo denominata “alla Conocchia”) e una parte delle aree declivi in direzione della Sanità. Nel 1512 la proprietà passò dai Pomarino ai frati del convento domenicano napoletano di Santa Caterina a Formiello. Dieci anni dopo la tenuta del convento venne ampliata ulteriormente con l’acquisto di un’altra masseria confinante. La tenuta domenicana andava dal fondo settentrionale del vallone della Sanità al pianoro dei Colli Aminei. L’edificio principale, autentico centro direzionale della tenuta, sorgeva in posizione panoramica sulla sommità della collina. Una visione completa è nella Mappa del Duca di Noja del XVIII secolo, da cui appare il complesso nella sua struttura originaria, “con un cortile porticato racchiuso da tre corpi di fabbrica di cui il maggiore, verso il panorama, presenta un lungo colonnato collegato da una scala ad una terrazza belvedere sostenuta, sul declivio, da una struttura a contrafforti”, come scrive Vanna Fraticelli. Nel 1806 la tenuta veniva acquistata dal marchese (poi duca) di Gallo Marzio Mastrilli. Al piano terra l’appartamento fu affrescato dagli artisti Gentile, Bisogni e Ciccarelli mentre il Beccari realizzò gli stucchi. Scrive Barbarulo: “tutta la fuga delle stanze esterne era dotata di balconi che si aprivano su di una gran loggia con balaustra di marmo, che gode l’aspetto imponente del mare, di Napoli, e delle prossime colline”. Mastrilli volle che l’intera tenuta si trasformasse in parco con statue, ruderi archeologici veri (come lo scomparso colombario della Conocchia) e finti, belvederi, che la resero una sorta di Parco di Capodimonte in piccolo. In quel periodo villa Gallo viene considerata dalle guide turistiche una delle più belle di Napoli. Più volte ebbe ad ospitare i sovrani Gioacchino Murat e Carolina Bonaparte. Divenne anche uno dei punti di vista preferiti dai paesaggisti dell’epoca, che spesso ritrassero il golfo visto dalla rotonda prospiciente la villa, su cui sorgeva una famosa palma. Morto il duca di Gallo, nel 1831 la villa fu venduta dai suoi eredi al Conte del Balzo, marito morganatico della regina madre Isabella di Borbone, che, dedicandogliela, la chiamò “Villa Regina Isabella”. Morti la regina e il conte, la villa fu comprata da un gruppo di capitalisti, poi passò prima al marchese Medici e poi al fondatore della Banca Sorrentina, Astarita. Dopo la seconda guerra mondiale, gravemente danneggiata dalle incursioni aeree, la casa passò ai padri rogazionisti, mentre la maggior parte della tenuta fu venduta a società di costruzione che realizzarono un progetto di edilizia residenziale che alterò del tutto l’originario assetto del territorio.

fonte: Wikipedia

 

 

Scuola di Posillipo (brevi cenni)  

  Gruppo costituito da vedutisti e paesisti, in gran parte allievi dell’olandese Antonio Pitloo, che nel terzo decennio dell’Ottocento si riunirono a Posillipo dove, con deliberato rifiuto dei canoni accademici della pittura neoclassica, instaurarono la consuetudine della pittura all’aria aperta, a diretto contatto con la natura, e dipinsero quadri caratterizzati da notevole freschezza e vivacità. Del gruppo fecero parte: Luigi e Salvatore Fergola, Raffaele Carelli, Achille Vinelli, Gabriele Smargiassi, Teodoro Duclére e Consalvo Carelli, ma la personalità dominante fu Giacinto Gigante che, con le sue interpretazioni liriche e soggettive del paesaggio, segnò il passaggio dalla veduta documentario-topografica a quella “poetica”.

 

 

Il Paesaggio della Scuola di Posillipo come principio di Arte Moderna  

  Nella storia dell’Ottocento il capitolo dedicato alla Scuola di Posillipo riveste un significato importante per tutto il progresso dell’arte napoletana, compresa l’arte dei pittori dell’Accademia, perché il “paesaggio ha una larghissima parte nella pittura moderna”, come ebbe a dire Francesco Netti, “quanta non ebbe mai nelle epoche decorse”. Netti è pur consapevole del fatto che tale processo innovativo non deriva da una nuova invenzione del modo di fare paesaggio, perché “noi non abbiamo inventato nulla in arte”, ma non può non affermare come attraverso il paesaggio si sia raggiunta la strada della verità e in definitiva della pittura moderna, offrendo l’opportunità di un cambiamento e di una revisione dei metodi dell’arte anche a tutti coloro che praticavano pittura di storia. La riflessione post quem di Netti, scritta a proposito della presenza degli artisti italiani all’Esposizione universale di Parigi del 1867, cade in un momento storico di acquisizione delle istanze di “libertà” raggiunte dopo l’unificazione nazionale, alle quali si erano consegnati anche i nuovi pittori del verismo storico svincolati dall’impaccio figurativo delle convenzioni della “copia dalla statua” o “dal nudo” di stampo accademico. Una vera e propria battaglia, quella degli artisti di paesaggio, e l’osservazione diretta del dato naturale si propone non solo come un baluardo, seppur non dichiarato, contro l’Accademia, ma anche come l’unico obiettivo possibile da perseguire, assieme a quei principi e ideali di verità che erano diventati, in tempi di sostanziale difficoltà politica, un’insopprimibile esigenza dello spirito. Alle considerazioni di Netti, che percepisce nel valore del paesaggio uno stato di progresso delle arti in genere, si accosta la voce eloquente di Pasquale Villari. Nella stessa circostanza storica (1867) Villari formula con risoluta consapevolezza una concezione molto simile a quella di Netti, esaminando quanto era avvenuto a Napoli nei quattro decenni che avevano preceduto l’Unità d’Italia, ed elabora, in un contesto di rivalutazione europea, la celeberrima opinione sulla Scuola di Posillipo, consacrata a questa denominazione ufficiale proprio a partire da quella data: La bellezza del clima, i paesaggi stupendi che circondano Napoli, e i molti forestieri che ne chiedono sempre qualche ricordo disegnato e dipinto, avevano fatto sorgere un certo numero di artisti i quali, come per disprezzo, erano dagli accademici chiamati della Scuola di Posillipo, dal luogo dove abitavano per essere più vicini ai forestieri. Essi non facevano in origine che copiare vedute, ma gli inglesi hanno generalmente molto gusto per questi lavori, li giudicano e li pagano bene. Fu perciò necessario migliorare, e la Scuola di Posillipo fece infatti progresso, e crebbe di numero. Anche Villari trova un nesso di continuità tra la Scuola di Posillipo e il naturalismo di Filippo Palizzi, e percorre la strada della “riconsiderazione” della pittura di paesaggio in un contesto di raffronto assolutamente sprovincializzato quale quello dell’Esposizione universale di Parigi, per una riflessione più generale sullo stato della pittura moderna in Italia e in Francia dopo il 1860. In tono più appartato, ma partecipe dello stesso registro di contenuti, si aggiunge qualche anno più tardi il contributo critico di Vincenzo Bindi, proiettato a riscoprire in epoca moderna il primato della pittura di paesaggio a Napoli, con un particolare riconoscimento a Pitloo che “aveva migliorato le condizioni di tutti i pittori di quell’epoca” (gli accademici Carta, Marsili, Cammarano, Angelini, Bonolis e altri). Una voce “di provincia”, quella di Bindi che, tuttavia, ha motivo di essere accostata alla critica degli autori precedentemente citati per la comune matrice di una formazione idealistica, coltivata alla scuola di Francesco De Sanctis e, nel caso specifico di Bindi, sostenuta dall’insegnamento di Giuseppe De Blasiis. Nel 1900 anche Domenico Morelli, oramai anziano protagonista di quel periodo storico, nel commemorare Filippo Palizzi, riconferma la linea dei predecessori e il ruolo prioritario e decisivo assunto dalla “famiglia” artistica della Scuola di Posillipo, che aveva dato loro “una spinta alla riforma della pittura fra noi”, sottolineandone la consapevolezza e l’efficacia dei risultati e dei metodi, che si fondavano interamente sullo studio del vero: Essi dipingevano, studiando sempre all’aria aperta: era naturale che censurassero i “figuristi” che dipingevano dal modello, con la luce dello studio, mentre volevano rappresentare scene all’aria aperta.[…] I paesisti ci misero sull’avviso […] la loro critica colpiva nel segno. Per Morelli il movimento dell’arte moderna trae origine dall’arte del paesaggio della metà del secolo xix, che con la Scuola di Posillipo, e in special modo con Gigante a Napoli, “si allargò poi in tutta Italia” seguito, poi, da Filippo Palizzi, considerato il vero riformatore dell’Arte Nuova. Uno stesso percorso viene proposto da Pasquale Lubrano Celentano, che trova una risposta al quesito posto in forma di saggio critico in Esiste un arte moderna in Italia?, nel quale viene sollecitato da parte della critica francese a far fronte a una inerte polemica di natura nazionalistica sul primato dell’arte moderna, mentre egli avverte la necessità di ancorarsi al carisma istituzionale di Morelli, al quale si sente legato sia per formazione ideologica, sia per la volontà di mantenere in vita l’eredità dei valori post-unitari del verismo storico, nei quali aveva creduto: La Scuola di Posillipo, novella scuola di Barbizon, perché, come quella, aveva per base delle sue ricerche il vero, dato il genere di quadretti, di acquerelli e di vedute che producevano gli artisti del cenacolo, ebbe come maggiore rappresentante Giacinto Gigante. A questo punto, per la prima volta, emerge la personalità di Giacinto Gigante, decisamente l’artista trainante del gruppo, “precursore del movimento pittoresco moderno”, stando a un giudizio espresso già all’esposizione biennale del 1903, dove ne era stata organizzata una piccola mostra e ne veniva rievocata la figura d’artista, succeduta alle retrospettive dedicate a Favretto nel 1899 e a Fontanesi nel 1901. Il 1903 segna anche la data d’inizio della fortuna critica di Gigante, in campo nazionale, nel Novecento. Gli acquerelli di Gigante esposti in quella circostanza, tra l’altro, provengono dal Museo di Capodimonte e dalla collezione dei duchi Correale di Terranova, che in quell’anno legarono tutta la loro raccolta alla città di Sorrento.

Luisa Martorelli

 

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Marciano Arte, galleria d’arte e cornici, Napoli

Salvatore Marciano

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