Scuola di Posillipo, Lungomare di Napoli dalla Villa Reale

Autore:SCUOLA DI POSILLIPO

N. - M. :Napoli, XIX secolo

Tecnica:Olio su tela

Misure:50 x 63 cm

Anno:Sec. XIX

Classificazione: Paesaggi, Oli, Figurativi, Antichi, Marine

Note Critico - Biografiche

Scuola di Posillipo 

 

Lungomare di Napoli dalla Villa Reale 

 

Foto del dipinto di autore anonimo appartenente alla Scuola di Posillipo del XIX secolo raffigurante il lungomare di Napoli preso dalla Villa Reale, con personaggi, barche a secco e veduta del Vesuvio e del Castel dell'Ovo sullo sfondo. Olio su tela 50x63 cm con cornice dorata di inizio XX secolo.
Olio su prima tela 50×63 cm del XIX secolo

 

Foto del dipinto di autore anonimo appartenente alla Scuola di Posillipo del XIX secolo raffigurante il lungomare di Napoli preso dalla Villa Reale, con personaggi, barche a secco e veduta del Vesuvio e del Castel dell'Ovo sullo sfondo. Olio su tela 50x63 cm con cornice dorata di inizio XX secolo.
Olio su tela 50×63 cm con cornice dorata di inizio XX secolo.

 

Bellissimo dipinto di autore anonimo appartenente alla Scuola di Posillipo del XIX secolo raffigurante il lungomare di Napoli preso dalla Villa Reale, con personaggi, barche a secco e veduta del Vesuvio e del Castel dell’Ovo sullo sfondo. Olio su tela 50×63 cm con cornice dorata di inizio XX secolo.

 

LA SCUOLA DI POSILLIPO

Fortuna e critica della Scuola di Posillipo  

  L’appellativo di Scuola di Posillipo per un gruppo di pittori che dipingevano le bellezze del paesaggio campano, spiagge incantate e ruderi carichi di suggestione, isole di leggenda e Vesuvio fiammeggiante, ma anche case e strade, e mare e campagne e scene di vita popolare, lo coniarono i pittori della corrente accademica, i pittori cesarei, favoriti della corte borbonica, intenti a produrre i loro smisurati quadroni di storia o di mitologia, con sereno disinteresse per le ragioni della pittura o della sensibilità. Gli accademici, come ultimo apporto provinciale della ventata neoclassica: e non in quanto professori dell’Accademia (ché poi, molti di loro, dei pittori di Posillipo per l’Accademia ci passarono, ad occupar cattedre di prestigio: Pitloo, Smargiassi, Duclère; — solo Gigante restò sempre fuori, né allievo né docente), ma quali conservatori di una convenzione che questi nuovissimi paesaggisti da un momento all’altro disconoscevano e contestavano. Anzi fu per i pittori di Posillipo una vittoria fin troppo facile perché, come d’incanto — i tempi erano già maturi — potettero inserirsi nella vita artistica ufficiale della città, prediletti dai nobili e dalla Corte: Gigante era intrinseco di Palazzo e maestro delle principesse nelle loro velleitarie esperienze di pittrici dilettanti.

All’inizio, a qualche lustro dal trattato di Vienna e dalla Santa Alleanza, quando da poco Ferdinando I delle Due Sicilie era tornato a Napoli, il fenomeno della improvvisa fioritura di questi paesaggini di qualche palmo o poco più, neppure sempre dipinti su tela, qualche volta su carta, ad olio, o ancora su carta, a tempera, senza studio, senza applicazione, in sedute rapidissime dal vero, aveva rappresentato un fatto nuovo e, nello stesso tempo, la negazione di ogni buona regola, di ogni precetto, di ogni tradizione. Quando mai si era visto qualcosa di simile, non dico a Napoli, ma in tutta Italia? Già che era cosa per stranieri, ed infatti i committenti erano tutti, o quasi, forestieri: signori venuti dal Nord, soprattutto inglesi — ma anche francesi, nonostante le avversità politiche — e tedeschi e russi; pittura per turisti, pittura da ‘souvenir’ turistico, immagini ricordo di luoghi felici, di ore serene, di una luce, di un clima, di un’atmosfera, che tornati In patria si sarebbero rimpianti con la nostalgia di sempre, alla Goethe, alla Lamartine.

Sembra certo, dunque, che all’inizio l’appellativo di Scuola di Posillipo avesse carattere tra spregiativo ed ironico; ce lo attesta, del resto, Pasquale Villari, che scriveva nel 1869, e quindi poteva vantare una conoscenza più immediata e diretta che non la nostra; i referti successivi, che variamente accennano alla Scuola, quello del Morelli del 1900 o del Dalbono del 1913 (per il Morelli, i pittori della Scuola di Posillipo «facevano bellissimi studi ad olio e ad acquerello di quei luoghi che sono più pittoreschi ed interessanti per i forestieri», e per Dalbono «portavano ad un grado altissimo di perfezione l’arte descrittiva a soggetto delle vedute di Napoli e dintorni»), non fanno altro che parafrasare il brano pienamente compiuto del Villari, sensibilmente più antico, o le entusiastiche dichiarazioni di Lord Francis Napier, che per sua stessa formazione e natura, intellettuale inglese innamorato di Napoli e del Mediterraneo, e sensibile alle cose dell’arte, meglio di ogni altro poteva parlare di questa pittura nuova e dei suoi interpreti spregiudicati e ribelli. E Lord Napier scriveva quattordici anni prima del Villari, nel 1855. Ma sarà bene riportarli integralmente i due passi, perché si compendiano a vicenda, ed offrono chiari elementi di qualificazione e di giudizio.

«La bellezza del clima, i paesaggi stupendi che circondano Napoli, e i molti forestieri che chiedono sempre qualche ricordo disegnato o dipinto, avevano fatto sorgere un certo numero di artisti che, come per disprezzo, erano dagli accademici chiamati della “Scuola di Posillipo” dal luogo dove abitavano per essere più vicini ai forestieri. Essi non facevano all’inizio che copiar vedute; ma gli inglesi hanno generalmente molto gusto per questi lavori, li giudicano e li pagano bene. Fu perciò necessario migliorare, e la “Scuola di Posillipo” fece infatti progresso, e crebbe di numero. Questi artisti viaggiavano assai più degli altri: andavano in Francia, in Inghilterra e vedevano nuove scuole; andavano in Oriente e tornavano con nuovi lavori studiati dal vero. Cominciavano finalmente a provarsi nelle esposizioni e, prima disprezzati, arrivarono poi ad essere discussi e considerati; sorse fra loro qualche uomo di singolare ingegno… Gigante è un acquarellista del quale non si troverebbe in Italia un altro di egual merito». Questo il referto di Pasquale Villari, chiaro, esplicito, e tuttavia venato da non so che distacco o remora mentale, che mal tradisce l’affiorare di un riserbo limitativo, e di una qualche palese incomprensione: forse in ossequio alla distinzione dei ‘generi’ o al troppo amore per le sopraggiunte esperienze dei romantici nostrani, ormai indifferenti al paesaggio, ed in tutto disponibili per i miti patriottici e sociali, per l’esotismo di maniera ed il bozzettismo dialettale. Certo l’atteggiamento di distacco rispetto alla Scuola di Posillipo ed ai suoi portati — sembra salvarsi solo Gigante — quel certo intimo disinteresse che traspare dalle righe del Villari, ha rappresentato per più di mezzo secolo il pregiudizio comune che ha impedito il pieno apprezzamento di quella produzione, fin quasi verso gli anni ’30, quando l’appassionata opera di Sergio Ortolani (e ancora della Lorenzetti, e del Biancale, e del Cecchi) è valsa a riscuotere da un oblio ormai protrattosi troppo a lungo questa rara e pregevole pagina dell’Ottocento paesistico. Ed è già qualche decennio che si avverte un risveglio del collezionismo per le dimenticate vedutine dei posillipisti, così che a bilanciare l’antica diaspora, la dispersione del secolo scorso per ogni parte d’Europa, comincia ora il grande ritorno, in Italia, ed a Napoli in particolare.

Ben maggiore che non nel Villari era stata l’adesione di Lord Napier, lui che certo poteva ritenersi ben aggiornato quanto ai fatti di cultura figurativa moderna, non fosse altro che per la conoscenza delle opere di un Bonington o di un Constable, e che si fa storiografo della pittura napoletana del primo Ottocento in termini di conoscenza approfondita, e con una acutezza critica che non può non stupire: «if the spectacle and impressions of beautiful scenery were alone sufficient to form a great school of landscape painting, that branch of the art would have been nowhere perpetuated in higher degree of perfection than at Naples». (F. Napier, «Notes on modem painting at Naples», London 1855, pag. 69). Un atteggiamento entusiastico, forse anche con una punta di passionalità — siamo pur sempre negli anni di Corot e di Turner però anche per Napier, «una grande scuola» ma valida in quanto dipendente dallo spettacolo naturale, dalle impressioni di un bello scenario vedutistico, e dunque, in fondo, con le stesse limitazioni che il Villari avrebbe fatte proprie quando sottolineava, quale spunto iniziale, la bellezza del clima e dei paesaggi, oltre naturalmente alle particolari esigenze di un mercato ad uso dei forestieri.

È chiaro che entro queste strettoie di rigorosa dipendenza dall’opportunità, o dalla occasionalità illustrativa, semplice riproduzione di paesaggi celebrati, ad uso turistico-documentario, la Scuola di Posillipo non avrebbe diritto di cittadinanza tra i momenti maggiori dell’Ottocento italiano — e forse europeo —; e se tale poteva apparire alla visione ravvicinata dei contemporanei il carattere saliente del movimento, oggi che è possibile inquadrare il fenomeno in una prospettiva storica più ampia saranno altri gli elementi di distinzione chiamati a caratterizzarlo: riservando la qualifica genericamente cartolinistica alla produzione minore, che pure ebbe corso, ed anche in ampia misura, ma che in nessun caso potrebbe essere assimilata ai risultati di un Pitloo o di un Gigante, le personalità dominanti del gruppo, o anche a talune prove di un Ercole Gigante o di un Frans Vervloet, e ancora del primo Smargiassi, e del Duclère, di Raffaele Carelli o di Francesco Fergola. La Scuola di Posillipo nasce con precise istanze di ricerca, e si svolge in modi di linguaggio sempre sostenuti da una esplicita necessità di rinnovamento, al passo con le più attuali espressioni dell’arte europea; e tanto appare palese quando si restringe il campo di indagine ai due protagonisti, Pitloo e Gigante: specificando però che di tutti i pittori partecipi alla Scuola — persino per una certa parte in Giacinto Gigante, «aliquando dormitat Homerus», — esiste una produzione marginale, povera d’ingegno, tirata via per il turista di gusto facile, legata solo al mercato, ad una più elementare esigenza di illustrazione. Ma questa non è la caratteristica saliente della Scuola, anzi potremmo dire che si tratta di mera sopravvivenza di una vecchia tradizione del vedutismo napoletano, vecchia e gloriosa tradizione, ormai tutta percorribile, a partire dal Seicento, lungo l’intero arco del Settecento, e fino ai primi anni del secolo nuovo, quando la Scuola di Posillipo non era ancora configurata, né si erano ancora stabilite le pressanti ragioni economiche che avrebbero dovuto condizionarla negli anni che vanno dal ritorno da Palermo di Ferdinando I a quelli dell’impresa dei Mille.

La tradizione vedutistica a Napoli   

  Una tradizione vedutistica, questa napoletana, che muove dal primo Seicento; Marzio Masturzio e Salvator Rosa — è il De Dominici («Le vite dei più eccellenti pittori etc.») che lo racconta, nel 1744 —: «andavano ambedue in barchetta disegnando belle vedute della deliziosa riviera di Posillipo, e verso Pozzuoli, che poi Salvatore cresciuto in età anche solea dipingere, e Marzio le copiava. Anziché portava la tavolozza con le carte imprimite, ovvero pezzi di tela nella barca acciocché quegli le colorisse; le quali poi, dopo copiate da lui, se ne faceva spaccio per mezzo de’ rigattieri, o rivenduglioli». Sembra già un preciso referto della Scuola di Posillipo di là da venire — per quanto riguarda l’abitudine della ripresa dal vero, per la scelta della veduta, e persino per la tecnica — le carte «imprimite» — e per il carattere del mercato, con la comparsa del «rivendugliolo» a mediar il commercio. Ora non escludo che il De Dominici ‘caricasse’ il racconto dei fatti seicenteschi, in base ad una sensibilità nuova, ché ai suoi anni già il vedutismo napoletano viveva la stagione più felice (gli anni di Carlo di Borbone, della scoperta di Pompei e dell’affermazione di una Napoli capitale di livello europeo); e però ci sono le opere a dirci in tutte lettere che effettivamente una tal tradizione aveva trovato il suo avvio ancor prima della metà del Seicento, e che Micco Spadaro indulgeva ai modi della veduta lirica, ruderi romani, armenti, riviere al tramonto, lo scoglio di Nisida o il Tempio di Vesta a Baia; che Salvator Rosa, invece, approfondiva i temi di un romanticismo potenziato dagli effetti dell’orrido e del pittoresco scenografico, fossero i boschi dei Camaldoli o il Ponte di Troia, le scogliere di Trentaremi, o l’Arsenale di Baia; e, infine, che v’erano stati i nordici, ‘bamboccianti’ ed affini, i quali le loro incursioni da Roma verso il Sud le avevano tentate con effetti molto spesso folgoranti, Thomas Wijck o Jan Asselijn, senza dire del precedente di Didier Barra, quando non faceva il cartografo.

Naturalmente storia e preistoria all’un tempo; e dovremo tuttavia ripercorrere anche le tappe successive se vorremo poi trovare il segno di una continuità tradizionale che permetta di sottolineare le differenze: ché pur trascurando Gaspare van Wittel, punto fermo in Italia ed a Napoli di un vedutismo limpido, speculare, corretto e curioso, già rutto moderno anche se sostanzialmente alieno dalle concessioni sentimentali, per tutto il Settecento questa preferenza per la veduta si atteggia a Napoli con altrettanta vitalità, anche se con minore coerenza e felicità d’accenti che a Venezia. Se a Venezia un gruppo locale giunge ad una formulazione compiuta e definitiva, con risultati di eccezione, a Napoli, invece, bisogna contare (a parte i più modesti temperamenti locali di uno Joli o di un Ricciardelli, di un Fabris o di un Antoniani) su di una confluenza sempre rinnovantesi di ingegni diversi per origini e per intenzioni, un continuo avvicendarsi di uomini e di maniere che però sperimentano lo stesso tema, la stessa veduta, gli stessi motivi di curiosità naturale.

Ché se non v’era il miracolo della laguna, delle splendide dimore nate dall’acqua, v’era pur sempre il ‘monstrum’ della montagna fiammeggiante — e le eruzioni si susseguivano a ritmo costante come già codificata attrattiva turistica —, e v’era l’antichità romana che riappariva per un evento non meno memorabile dalla coltre di cenere bimillenaria a Pompei, e tutta la scultura classica, prodigio dei prodigi, liberata dai tufi di Ercolano. Era veramente il fiore della classicità che si rioffriva allo sguardo degli uomini di cultura di tutta Europa, assetati di emozioni neoclassiche, le menti illuministicamente protese a carpire i segreti della scienza da una lettura approfondita e nuova di ogni fenomeno naturale. Napoli tappa d’obbligo per i pittori stranieri che si spingevano al Sud secondo un itinerario ormai abituale; e tuttavia le ricerche di questi pittori di passo restano fondamentalmente estranee al ‘cursus’ normale della vita artistica locale, tanto da cadere spesso nell’oblio immediato: si è dovuto attendere questi ultimi anni per capire il valore eccezionale delle vedute napoletane di un Wright of Derby, di un Thomas Jones o di un John Robert Cozens, poeticissime, nuove, inattese; e poi sarà la volta di Wilson e di Turner o dei turneriani, quasi che con l’avanzare del Settecento tutto il possibile sperimentalismo vedutistico venga ad esercitarsi sul tema del Golfo. E con gli inglesi che abbiamo ora citato, i francesi, Vernet in testa e poi Manglard, ma sempre con distaccato cipiglio da elaboratori romantico-scenografici, più fantasioso e bizzarro ‘le Chevalíer Volaire’ con le sue eruzioni, su su risalendo fino al Lory ed allo svizzero Ducros, ed alle ultime leve del nuovo Impero venute giù con Giuseppe Bonaparte o con Gioacchino Napoleone: Didier Boguet, o Alexandre Hyacinthe Dunouy, o il Péquignot, o il De Crissé; ma si trattava sempre di apporti parziali e temporanei, cui mancava la possibilità catalizzatrice di disporsi nei modi di un discorso ordinato che potesse farsi unitario e portante per la cultura locale (come a Venezia nel Settecento).

Filippo Hackert è il solo che resti per diciassette anni filati a Napoli (e ci sarebbe stato ancora se non l’avesse terrorizzato la rivoluzione del ’99), a codificare il principio di una veduta che fosse obiettiva e puntuale, alla maniera dei nordici, secondo la vecchia convenzione vanvitelliana, ma che all’occasione, riducendosi il formato, sapesse farsi sensibile e vibrante di più impegnata ricerca pittorica. Filippo Hackert: trascuriamolo pure come pittore cesareo, pittore di porti e di uniformi militari, ma andiamolo a ricercare nelle ‘gouaches’ trepide di verdi primaverili e di luci filtrate, e troveremo un paesaggista di razza. E però vecchio, come vecchi, nelle intenzioni e nei risultati, si rivelano gli altri tedeschi pure di stanza a Napoli, Tischbein o Wutky, o Kniep; meglio allora, a questi stessi anni, il piccolissimo manipolo dei mestieranti, i pittori delle ‘gouaches’ popolari, ancora tutti anonimi, meno qualcuno — di Xavier della Gatta già si può parlare come di un ‘caso’ —; meglio le vedutine che questi anonimi mestieranti smerciavano ai turisti, per pochi soldi, quasi un’istantanea, una foto ricordo, che valeva però a stabilire un’abitudine nuova: quella del pittore fuori dello studio, estraneo ad ogni impegno di ufficialità, senza ambizioni e senza pretese, che onestamente svolge il suo lavoro quotidiano, all’occasione indulgendo alla produzione in serie, lo specialista, il professionista della veduta topografica da Miseno a Paestum, delle eruzioni del Vesuvio, del costume popolare. Ve n’è tutta una fioritura, e sono pochi i nomi finora tirati alla luce (ma già il mercato internazionale si va accorgendo di queste ‘gouaches’ e sorgono i primi timidi collezionisti e raccoglitori): pittori senza ambizione, ed ancora oggi senza storia, i quali però, proprio perché sganciati da ogni velleità accademica, umile proletariato (o sottoproletariato) dell’arte, potevano affinar le loro emozioni con tutta schiettezza, ed anche guardare con cura, con cura maggiore di quanta ne mettessero i pittori ufficiali, alle esperienze dei pittori di passo. Sta di fatto che in questa misconosciuta o affatto sconosciuta produzione a tempera di temi napoletani o genericamente dell’Italia Meridionale, v’è da cogliere, se non proprio l’inizio, almeno una delle componenti fondamentali di quella produzione che più tardi, codificata e riconosciuta attraverso tutta l’Europa, prenderà il nome di Scuola di Posillipo. […]

Raffaello Causa
da: “Scuola di Posillipo” – Fratelli Fabbri Editori – 1967

 

Marciano Arte, galleria d’arte e cornici, Napoli

Salvatore Marciano

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