Autore:LONGOBARDO GUGLIELMO
N. - M. :Bacoli, 1948 - 2023
Tecnica:Tecnica mista e collage su carta
Misure:17,8 x 19 cm
Anno:1981
Classificazione: Astratti, Moderni, Altre Tecniche

La pittura di Guglielmo Longobardo è una scena dove accadono fatti indecifrabili, fenomeni e segnali di una meteorologia estremamente enigmatica, che attira lo sguardo non per quello che promette o minaccia, ma per la bellezza dei suoi spettacoli imprevedibili. Già in alcune opere di oltre vent’anni fa, come Rosso e Senza titolo del ‘74, l’unica certezza riguardava il luogo di questi eventi: ambiguo e misterioso, ma irrefutabile nella sua presenza sullo schermo del quadro e nell’acutezza del suo riferirsi non a questo o quel contenuto particolare della percezione visiva, ma al modo stesso in cui questa appare come soglia aperta sul mondo. Longobardo con la sua pittura, che affonda le radici nell’humus storico dell’Informale, scavalca il confine tra l’astratto ed il figurativo e unisce la tensione verso le forme essenziali con un profondo radicamento nell’esperienza. Egli non cerca supporti alla fantasia nella costruzione di vuoti schematismi mentali o nell’aderenza alla pelle delle cose, ma intuisce che alcune modalità di fondo della percezione visiva del reale valgono anche come condizioni costitutive dell’immagine artistica e possono perciò stimolare la riflessione e l’indagine pittorica. Per questo motivo i quadri dell’artista flegreo, pur nell’assenza di segni iconici particolarmente forti, danno sempre l’impressione di avere qualcosa a che vedere con gli oggetti della nostra esperienza, almeno nel senso che l’organizzazione spaziale di ciò che ci viene mostrato dall’immagine pittorica s’accorda con la nostra percezione della realtà. È qui forse la ragione del fatto che l’incontro con la pittura di Guglielmo Longobardo, anche con le sue situazioni spazialmente più inconsuete e stravolte, viene vissuto come apparizione e riconoscimento: apparizione di ciò che prima ignoravamo – forse perché nascosto dalla folla delle cose che occupano la scena richiamando la nostra attenzione – ma che ora riconosciamo nel suo profondo appartenerci. Quando dopo oltre dieci anni, dovendo tornare a scrivere di Longobardo, ho voluto ripercorrere i diversi momenti della sua ricerca, dall’avvio degli anni ‘70 ad oggi, è per me diventato sempre più chiaro che – da Vagabondaggio del ‘72 a Lungo viaggio del ‘92, dalla serie dei Paesaggi flegrei e dei Paesaggi orizzontali degli anni ‘80 a Il tempo e i luoghi del ‘91 – quei momenti coincidevano interamente con i luoghi della pittura: luoghi ariosi, senza ripari prestabiliti al gioco delle luci e delle ombre, senza chiusure di orizzonti e perciò senza centro, dove le cose si spostano verso i margini e si perdono fuori della nostra vista, come portate da una eterna deriva. Eppure l’impressione è che alla fine di questo viaggio ci si ritrovi nel punto di partenza. Allora comprendiamo che le plaghe di azzurro limpidissimo o illividito nelle ombre, i gialli ed i rossi infocati dai vapori sulfurei o schiariti dai bianchi spumeggianti, i morbidi cedimenti nella cenere dei grigi o le spettacolari irruzioni di luce e, insomma, tutta la fenomenologia di un mondo aereo, privo di impalcature spaziali e di forza gravitazionale e perciò straordinariamente mutevole, non dicono di luoghi diversi e lontani, ma dell’ininterrotto passaggio delle cose, della leggerezza e della fugacità con cui gli eventi accadono intorno a noi. Lo schermo del quadro è lo schermo su cui passa il film della nostra esistenza: un luogo nient’affatto sicuro e protetto, esposto anzi alle rovine del tempo, e tuttavia familiare, infine, nostro. Non è vero, infatti, che quello che vediamo sia solo la parte più prossima di uno spazio estraneo, totalmente fuori di noi. In realtà il nostro è sempre un “vederci”, un percepire noi stessi coinvolti nello spazio, che è necessariamente il luogo del nostro corpo e dei nostri sensi, delle nostre memorie e dei nostri desideri.
C’è stato un periodo in cui l’artista Guglielmo Longobardo ha intitolato i suoi quadri “paesaggi” e si potrebbe continuare a chiamarli così, ma a patto che – come osservato nell’84 – s’intenda bene come le immagini di Longobardo non “tentino di fare specchio alle circostanze ambientali e di registrarle nei loro aspetti più corrivi”, neppure quando la loro gamma cromatica calda e luminosa pare evocare le luci della terra flegrea. Del resto è significativo il modo in cui questo tema è stato svolto in una serie di Paesaggi orizzontali, dipinti sul finire degli anni ‘80, dove non solo è assente anche la più vaga connotazione naturalistica, ma soprattutto diventa prevalente un interesse di tipo analitico verso le componenti pittoriche del quadro, le quali – come scriveva Adriano Baccilieri nella presentazione di una mostra bolognese dell’88 – “vengono analizzate e trascritte in una sorta di differenziata banda di pertinenza sul foglio, come note di uno spartito”. Non so se questi dipinti segnino veramente il passaggio da una tentazione di recupero “caldo”, di immediato coinvolgimento emozionale, dell’Informale ad una rivisitazione condotta sulla linea, invece, del riconoscimento dell’incalcolabile distanza storica che ci separa da quell’esperienza artistica esplosa negli anni del secondo dopoguerra. Sono piuttosto portato a pensare che, come in tutta l’arte contemporanea, anche nel caso di Longobardo i due momenti – della consapevolezza critica e della partecipazione alle emozioni espressive più profonde – s’intreccino intimamente nella complessità dell’esperienza artistica e che non ne derivi perciò necessariamente la contrapposizione tra un atteggiamento di spontaneità ingenua e preriflessiva e una disposizione freddamente analitica, garantita nella sua purezza dal congelamento di qualsiasi spinta emozionale. Se si considerano più attentamente le opere realizzate da Longobardo dalla seconda metà degli anni ‘80 ad oggi, è facile accorgersi che al gruppo di dipinti su carta in cui predomina la procedura di isolamento e di reimpaginazione di alcune componenti del linguaggio pittorico si accompagnano altri che, sebbene non registrino un calo della tensione autoriflessiva, mantengono tuttavia integra l’immagine, introducendovi il motivo del quadro nel quadro. La serie alla quale mi riferisco, aperta da Quadro dell’85 e sviluppata in numerose altre opere, tra cui Quadro paesaggio e Il tempo e le cose dell’87, si riconosce immediatamente perché, al contrario di quel che si vede nella gran maggioranza dei dipinti di Longobardo, presenta costantemente un elemento al centro della composizione, bloccata con saldezza intorno ad esso. In realtà, come del resto suggeriscono anche alcuni titoli, si tratta di un raddoppio del quadro al suo interno stesso. Ad esempio, Quadro paesaggio non è semplicemente la rappresentazione di un paesaggio, ma di un quadro che a sua volta rappresenta un paesaggio. L’elemento centrale – il quadro nel quadro – suggerendo una catena di rimandi all’infinito o, come si dice, avviando un processo mise en abime, reintroduce nel cuore del quadro quel sentimento dell’illimitato che è proprio di tutta la pittura di Longobardo e che ad una prima superficiale considerazione sembrava essere stato eliminato.
Che il raddoppio del quadro al centro della composizione provochi una sorta di risucchio, di inabissamento non solo mentale, ma visivo – segnatamente nell’organizzazione spaziale dell’immagine pittorica – è dimostrato da molti quadri degli anni ‘90, dove si assiste ad un aereo, vertiginoso sfondamento della superficie dipinta, proprio nella parte centrale prima occupata dal motivo del quadro nel quadro. La cosa è particolarmente evidente nei dittici intitolati Dialoghi immaginari e Lungo viaggio del ‘92. Soprattutto nel secondo, che può far pensare a una libera e felice variante moderna delle grandiose aperture pittoriche dei soffitti barocchi. Si ritorna così, per altra via, alla spazialità illimitata e misteriosamente precaria di alcune importanti opere della metà degli anni ‘70, come i ricordati Rosso e Senza titolo, e l’impressione è ancora una volta non di trovarsi di fronte alla rappresentazione di un mondo in se stesso concluso, con una sua propria e stabile organizzazione spaziale, ma di essere coinvolti in una dimensione che ci riguarda profondamente, nella quale l’enigma del luogo rappresentato è in qualche modo l’enigma del rapporto che lega la nostra soggettività allo spazio del mondo.