Giustino Calibe’, Astratto (10 opere)

Autore:CALIBE GIUSTINO

N. - M. :Napoli, 1950

Tecnica:Olio su tela

Misure:80 x 100 cm

Classificazione: Moderni, Astratti, Oli

Note Critico - Biografiche

GIUSTINO CALIBE’

Napoli, 1950

 

10 dipinti astratti disponibili dell’autore

 

dipinto astratto di giustino calibe'
Giustino Calibè, tecnica mista su tela 100×100 cm
quadro astratto di giustino calibe'
Giustino Calibè, olio su tavola 100×100 cm del 1990
quadro astratto di giustino calibe'
Giustino Calibè, olio su tela 100×120 cm del 1992
quadro astratto di giustino calibe'
Giustino Calibè, olio su tela 160×220 cm
quadro astratto di giustino calibe'
Giustino Calibè, olio su tavola 55×70 cm
quadro astratto di giustino calibe'
Giustino Calibè, olio su cartone applicato su tavola 56×76 cm
dipinto astratto di giustino calibe'
Giustino Calibè, olio su cartone applicato su tavola 56×76 cm
dipinto astratto di giustino calibe'
Giustino Calibè, olio su tavola 90×70 cm
dipinto astratto di giustino calibe'
Giustino Calibè, olio su tela 80×100 cm
quadro astratto di giustino calibe'
Giustino Calibè, olio su tela 80×100 cm

 

 

L’opera di Giustino Calibe’

Le opere di Giustino Calibe’ si compongono di stratificazioni dolorose e di magiche suggestioni. Il ricordo è improvvisamente presenza nel respiro greve del colore marcio che naviga faticosamente su superfici trattate come immensi cretti, dove la sabbia vesuviana è strato e substrato di una dimensione sospesa tra tempo e spazio. Come arricchita dalle tonalità pure del colore, la fredda e antica sabbia vesuviana si trasforma in lava bollente ed esplosiva. L’alternarsi di strutture geometriche sottili ed intersecanti contrasta con la ruvida e penetrante superficie del supporto, la quale segna concretamente ogni interpretazione soggettiva. Lunghe lacerazioni orizzontali attraversano le tele. Dinamismi verticali e grandi occhi individuano il vero bersaglio dell’attenzione in una tessitura graffiata sottilmente. All’interno di questa lacerazione si avverte la forza aggressiva di una natura mai domata, la stessa natura emotiva che a stento Giustino Calibe’ riesce a contenere in se stesso: questa forza inespressa costringe l’artista a modificare continuamente la propria cifra stilistica perché il suo è un lavoro sugli elementi primari, è un lavoro sulle origini della terra come materia in continua evoluzione….

Simona Barucco

 

….

 

L’ombrosa luminosità della pittura di Giustino Calibe’

L’ossimoro è la “figura” dell’arte di Giustino Calibe’. Non a caso, anche in una sua breve poesia, pubblicata nel catalogo d’ una mostra del 1991, troviamo espressioni come “percorsi segnati dal pallido sole della notte” e “assenze temporaneamente definitive”. In quell’occasione egli espose una serie di delicati oli su tavola, dove nello spessore compatto dei bianchi trascorreva, insieme con un mondo di forme e di colori appena sussurrati, un velo d’ ombra, un leggero appannamento della luce, come per effetto d’ un respiro che provenisse dall’interno dell’immagine.

In seguito, la pittura di Calibé, passata attraverso vari svolgimenti, che rinnovavano in modo originale l’esperienza materica dell’Informale, prese un andamento ciclico, alternando, per così dire, periodi chiari e periodi scuri, fasi caratterizzate dalla ricerca di una luminosità interna alla materia e fasi in cui questa sembrava sprofondare nel buio. Ma anche in questa scansione distribuita nel tempo, che arriva fino ad oggi, è riconoscibile il segno della “figura” che accosta paradossalmente termini opposti. Il giorno e la notte nell’arte di Giustino Calibe’ non appaiono mai veramente separati. L’artista non ama dividere e contrapporre, a tal punto che per lui non solo la luce e l’ombra accolgono e legano dentro di sé le cose, ma paradossalmente sono esse stesse amiche l’una dell’ altra. Il ciclo della luce è sempre attraversato da diffusi cedimenti d’ ombra e quello del buio conosce il palpito di inattesi bagliori. La pittura procede come il fiume della vita, che scorre rimescolando tutto ciò che porta verso la foce, in un “viaggio di sola andata”.

In questo senso la pittura è sempre un azzeramento. Di classificazioni e di gerarchie, di cose già dette e di valori prestabiliti. Calibé Io avvertì con chiarezza all’avvio degli anni novanta, quando rinnovò radicalmente il suo modo di fare pittura, ripartendo, appunto, da zero. Non era un revival di altri azzeramenti (come quello, ad esempio, predicato dai teorici della cosiddetta “pittura-pittura” alcuni decenni fa). Non era di tipo mentale, non rifaceva il verso alle analisi metalinguistiche dell’ arte concettuale né al purismo delle innumerevoli varianti neomi­nimaliste. Per Calibé il grado zero della pittura da cui bisognava partire riguardava piuttosto la sfera delle emozioni. Lo spopolamento della scena del quadro annunciava il silenzio necessario al nitido ascolto di una voce.

Da allora il valore di un quadro si misura, per Calibé non dalla sua pretesa di accogliere i colori e i disegni del mondo, ma dalla capacità di intercettarne i riflessi e le ombre e di avvertire tuttavia l’alone emotivo che accompagna ogni minimo indizio di presenza. A prima vista sembrerebbe che questa capacità si fondi, come s’è già detto, sulla riscoperta dell’Informale, rivisitato nel suo strettissimo intreccio segnico e materico. Ma se non c’è dubbio che, riguardando in prospettiva storica gli avvenimenti artistici degli ultimi cinquant’anni, l’antefatto dell’ attuale ricerca di Calibé debba essere riconosciuto appunto nell’esperienza dell’Informale, è tuttavia altrettanto evidente come di quest’ultima grande stagione pittorica venga scartato proprio il carattere ultimativo, di estrema e spesso tragica testimonianza esistenziale. E sono scartati, conseguentemente, anche tutto il ciarpame prodotto dall’illusione dell’immediatezza espressiva – per intenderci la facile “gestualità” che crede di potersi sottrarre ad ogni filtro culturale e farsi tramite diretto e privilegiato della soggettività, se non specificamente delle pulsioni profonde dell’Es – e il torbido, dilettantesco pittoricismo che ha caratterizzato i numerosi ritorni all’Informale tentati dall’inizio degli anni Ottanta ad oggi.

La ricerca di Calibé continua a svolgersi sotto il segno della misura e persino di un certo pudore espressivo. Forse l’artista vi è indotto dalla volontà – cui prima s’accennava – di dare ascolto, sulla soglia del silenzio, alle piccole voci, a quelli che egli stesso ha chiamato “languori di vita” e che la pittura può riuscire a registrare solo a patto che sappia mettere la sordina non solo al racconto delle grandi storie, ma anche all’accesso dei lamenti esistenziali. In questo modo, concentrando l’attenzione su ciò che di solito sfugge alle nostre prime impressioni, Giustino Calibe’ ha saputo conciliare l’aderenza alla purezza del linguaggio pittorico, indagato quasi al microscopio nella sua avventurosa tessitura materica e segnica, con una delicata ma tenace evocatività in cui, attraverso “il colore dell’anima”, risuonano le voci contrastanti del mondo.

Vitaliano Corbi – 2001

 

 

Giustino Calibe’ a Castel dell’Ovo il “ritorno” della pittura

Cinque strutture rettangolari, distribuite sul lati della Sala delle Prigioni di Castel dell’Ovo, presidiano lo spazio immerso nella penombra. Viste da lontano, con la luce che le illumina dal basso, sembrano enigmatiche tavole della memoria, monumenti sopravvissuti a testimonianza di misteriose civiltà passate. In realtà sono grandi cornici vuote, attraversate da sottili fili metallici, che scandiscono le distanze con rapide traiettorie geometriche o corrono da un lato all’altro di questi grossi e scuri telai come righe di una indecifrabile ma regolare scrittura. Su questi fili Giustino Calibè, che è uno degli artisti più interessanti ed inquieti della cosiddetta “generazione di mezzo”, ha lasciato qualche spessore materico e inaspettate tracce cromatiche, a ricordare che il vuoto nel quale ora essi si tendono era una volta occupato dallo spazio della pittura. E i pochi intermittenti residui di materia e di colore, che ancora turbano la severa monumentalità di queste opere, sono forse ciò che resta del corpo glorioso della pittura. L’ultimo tempo della ricerca condotta da Giustino Calibe’, un tempo che viene riassunto efficacemente in questa mostra di Castel dell’Ovo, ha assunto un esplicito andamento autoriflessivo, a conclusione di un’esperienza che, come notavo qualche anno fa, aveva saputo moderare le mozioni più “calde” e appassionatamente esistenziali dell’Informale con il sentimento della distanza storica che da esse ci separa e con una disposizione “analitica” a spostare la pratica della pittura sul versante metalinguistico. Il quadro non voleva essere semplicemente lo schermo di una rappresentazione virtuale, ma il luogo di un evento. Era avviato un processo di spostamento della pittura fuori della luce del quadro, della sua caduta nel passato e di una difficile risalita, che non si conclude con un trionfale ritorno, ma resta come traccia riaffiorata in un contesto divenuto radicalmente altro. Il titolo della mostra —“Exitus” — e l’impressione di trovarsi di fronte a misteriose testimonianze di una civiltà trascorsa, mentre fanno capire che un tempo, e non solo dell’arte di Giustino Ca­libe’, si è compiuto, già coinvolgono lo spettatore in una nuova esperienza.

Vitaliano Corbi – 2005 da “La Repubblica”

 

 

La pittura improbabile

La pittura di Giustino Calibe’ è improbabile perché le verità assolute appartengono solo ai dogmi, mentre in arte non c’è soluzione per chi voglia anzitutto garantire il suo cammino o restare ad ogni istante giusto e padrone assoluto di se stesso; perché in ogni singolo artista il modo di essere dell’ uomo è ambiguo nel senso che non è né soggettivo, né oggettivo.

L’improbabilità allora non vuoi dire che la concettualità e l’action dell’artista siano confuse e incerte, ma vuoi indicare che ogni attività umana, e soprattutto la creatività, include necessariamente l’esperienza soggettiva, che ha in se l’oggetto, e l’apparire in un oggetto, che risulta costituito da operazioni soggettive, come più o meno suggerisce Merleau-Ponty, il quale fa rivelare, inoltre, come nessun lato dell’oggetto si mostra se non nascondendo attivamente gli altri, denunciandone l’esistenza nell’atto di nasconderli.

Perciò vedere è, per principio, vedere e far vedere più di quanto si veda; accedere e far accedere non ad una mancanza, ma ad una latenza. Tutto ciò comporta il coinvolgimento attivo dello spettatore che scopre le dimensioni, le linee di forza, gli scarti che segni e forme obliquamente suggeriscono in quanto alone di invisibilità presente.

In tal modo Calibé può tentare il meno probabile: porre nel corpo e nella carne della sua pittura due movimenti interni e trasversali; l’uno rettilineo, tendente all’ordine dell’eidos, l’altro circolare, esplosivo, nucleare, contraddittorio, improbabile come il moto delle comete, sospettato inverso a quello di tutti gli altri pianeti; assegnare al colore l’esplosione erotica dei caldi, ai freddi l’esplosione degli spazi invisibili; capovolgere nel regime diurno le immagini e le figure del regime notturno; immergersi nel nero, che è massimo assorbimento della luce, nel bianco che è matrice ed assenza di ogni materia colorata; può ispessire sino ad essere pantagruelico divoratore di impasti, assottigliare e ridurre sino a preferire l’astinenza minimalista dei francescani; può indurre l’ebbrezza dionisiaca e l’ek-stasis apollinea. Compie soprattutto il suo viaggio a Citera con i suoi ospiti, visitatori sospesi, compagni di avventura.

Arcangelo Izzo – 1995

 

 

Viaggio verso la periferia di Giustino Calibe’ 

Nella nota di presentazione in catalogo della prima mostra personale di Calibé (Galleria Ariete, 1987), Gino Grassi, ponendosi accortamente e generosamente come a uno dei crocevia delle ragioni e dei modi della ricerca del giovane pittore, gli dà una piena autorizzazione a procedere oltre, affermando senza riserve che si tratta “di un artista di chiara vocazione che sa il fatto suo ed ha le carte in regola per bruciare le tappe”. Tuttavia, com’è d’obbligo da parte di un addetto ai lavori, per sovrappiù provetto nel mestiere e negli anni, non può non allegargli in ultimo (in cauda, venenum: si diceva una volta) un suggerimento di vigilanza autocritica e di scarnificazione (dell’emotività). Scrive Grassi in termini di osservazione generale per addolcire la pillola, ma innanzitutto per un esercizio di modestia con la propria funzione: “Soltanto il pittore che sa soffrire e che riesce ad adeguarsi ai mutamenti senza rinunciare alle proprie convinzioni […], può trovare […] una giusta legittimazione”.

Questo viatico, di lucido e sofferto dialogo con sé stesso e con gli svolgimenti del gusto e delle tendenze artistiche, non è una novità per Calibé, vocato da sempre al confronto con i linguaggi in movimento e alle interrogazioni interiori sull’autenticità, sia per scelta sia per il concorso di sollecitanti occasioni culturali, come l’apprendistato al corso di nudo sotto il magistero di Giuseppe Pirozzi, un artista intriso di raffinatezza, quanto percorso da feconde inquietudini inquisitive degli ambiti espressivi.

Sulla strada della macerazione, Calibé si spinge in solitudine molto oltre i termini di salvaguardia delle misure ordinarie e fisiologiche del mestiere: in un serrato spazio di analisi del malessere dell’io e del mondo, seguite anche sulle tracce di folgorazioni poetiche (Calibé frequenta e pratica con essenzialità e pudore la poesia), l’uomo giunge ad affacciarsi e a trattenersi come sul bordo di una sua “saison en enfer”. E ne riporta smarrimenti, ma anche riverberi e accensioni di atmosfere roventi e implosive, oltre che pulsioni all’incupimento, e alle compiacenze per il silenzio, ovvero per le bianche sequenze del silenzio.

Di queste contrattazioni estreme e come a rischio del nichilismo si hanno rispecchiamenti nelle fasi, come la più recente, dove il fare pittorico si esprime negli inerudimenti e negli spegnimenti del colore in atmosfere chiuse e tetre, nella perdita del bianco immacolato, come fosse la perdita dell’innocenza e della gioia di vivere.

La pittura di Calibé, però, non è monocorde. Non è che la tragicità nel suo fare mai si addolcisca o si plachi, perché c’è sempre tensione allo spasimo a essere in consonanza con l’evento dinamico e drammatico che è la vita. Ma ci sono sane e forti sequenze di abbandono al flusso dell’esistenza, all’auscultazione delle dissonanze delle origini e delle intermittenze dei suoni, che intanto aprono faglie per dare opportunità all’ingresso di altri dinamismi e situazioni.

Allora la sua pittura si fa assaggio e registrazione, sul versante della minimalità, del crepitio del farsi e dello svolgersi della materia, che lievita e si porta, scartocciandosi, sempre più lontano e in periferia, in smemoramento e spegnimento del centro, nel senso indicato da Poulet per la vicenda letteraria del moderno.

Ugo Piscopo

 

 

 

 

 

MarcianoArte, galleria d’arte e cornici, Napoli

Salvatore Marciano

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