Salvatore Vitagliano, Grande Madre b

Autore:VITAGLIANO SALVATORE

N. - M. :San Martino Valle Caudina, 1950

Tecnica:Tecnica mista su tavola

Misure:30 x 21 cm

Anno:dopo il 2000

Classificazione: Figure, Figurativi, Astratti, Altre Tecniche, Moderni

Note Critico - Biografiche

VITAGLIANO SALVATORE

San Martino Valle Caudina, 1950

Grande Madre (b)

Dipinto di Vitagliano, Grande Madre b
Dipinto di Salvatore Vitagliano, Grande Madre b, tecnica mista su carta applicata su tavola 30×21 cm

 

 

Vitagliano Salvatore: un perturbatore disarmato

 Premetto che ho insufficienti rudimenti del taoismo, per avviare un discorso più confacente a lui. E d’altra parte, non si può parlare della sua opera senza questo fondamento filosofico. Ma parlare della sua opera significa anche parlare di lui, perché opera e uomo in questo caso sono inscindibili. Salvatore Vitagliano lo si incontra talvolta alle mostre, discreto, schivo, silenzioso. Se ne sta in disparte, il berretto calzato sulla testa rasata da bonzo e quegli occhi perforanti che cercano di afferrare ogni palpito, di percepire ogni lampo che filtra dalle convenzioni. Raramente mi è capitato di vedere un uomo così disarmato eppure così severo, agguerrito, sicuro. Nessuno, a guardarlo, indovinerebbe tanta forza in quell’aspetto esile: una fermezza che gli deriva dal suo senso di giustizia — che è rigore morale — davanti alla quale non esistono interessi personali né ambizioni.

Non si piega davanti a nulla e nulla lo indigna più del compromesso o dell’ipocrisia.

Come un antico Spartano, ha il culto dell’amicizia, per lui sentimento imperituro, che continua oltre la vita, e per la quale non esita a sacrificare rapporti che potrebbero rivelarsi vantaggiosi per la sua attività. E’ leale, generoso, disinteressato e passionale, qualità imperdonabili in un mondo di arrivisti, che premia la mediocrità cortigiana e riduce la verità in spazi sempre più angusti. In siffatto mondo Vitagliano è una presenza scomoda per il solo fatto di esistere. La sua opera, a Napoli, la conoscono tutti, e tutti ne parlano bene, ma come per esorcizzare l’autore, quasi si avvertisse minacciosa l’ombra che lo annuncia. E chiaro, quindi, che ha una vita difficile. Entro nel suo studio, in un antico edificio del Centro Storico di Napoli, che porta ancora i segni di un fasto passato, anche se attualmente dimesso. I miei occhi sono subito catturati da un’opera che copre tutta la parte (la parete di una casa antica!). Si tratta di un centinaio di piccole tele giustapposte a formare un tutto unico. Se avessi la possibilità di guardarlo a distanza adeguata, non esiterei a definire quest’opera un Klee dilatato. Ma a distanza ravvicinata è Vitagliano che parla. Al centro della composizione un’immagine umana e tutt’intorno noti e ignoti simboli – la croce, il candelabro ebraico, la mezzaluna, i geroglifici… Ciò che mi colpisce, però, è il colore sul quale riposano i simboli. Vi predominano l’azzurro e l’oro, i colori che i Bizantini riferivano alla spirito. Mi attrae maggiormente l’azzurro, prezioso, raffinatissimo, dalle infinite vibrazioni, come i cieli di Piero della Francesca. Nel suo saggio sul simbolismo funerario degli antichi, J.J. Bachofen osservò che i simboli dei rilievi funerari romani riposano in se stessi, il che significa che quei simboli sono in se stessi compiuti e non rimandano ad alcuna realtà che li trascenda. Come è possibile, ciò, se noi chiamiamo simbolo una immagine o una entità che per sua natura e struttura ne richiama un’altra? Quei simboli, pur non rimandando ad alcuna entità che li trascendesse, rimandavano alla morte, al Nulla della morte. Non alla morte in sé, ma al mito della morte, cioè una verità superiore che è Nulla. Il rimando al Nulla è un’esperienza eminentemente religiosa, oscura, che collega l’essere direttamente all’Assoluto, come l’hanno sperimentata i mistici di tutte le religioni, greci, buddisti, taoisti, ebrei, cristiani, musulmani. Allora, se il misticismo è il desiderio di sentire Dio, si comunicare con Lui nel modo più intimo e profondo, Salvatore Vitagliano è un mistico, come mistici sono, del resto, tutti i grandi artisti nel momento decisivo della creazione quando, posti di fronte all’oscurità dell’ignoto, a quel Mysterium tremendum assolutamente inaccessibile fatto di timore e speranza, di terrore e stupore, l’eccitazione sensibile cerca un’espressione e con essa quel carattere di assoluta eccezionalità, di rivelazione manifesta e nello stesso tempo nascosta, che è il carattere originario del sacro.

La ricerca del sacro come unica fonte del reale.

Ecco il nodo problematico dell’odissea di questo artista che, come un francescano o un monaco buddista imprime alla sua vita un’austerità quasi rituale per poter meglio transitare dal finito all’infinita onde evocare il mistero nella sua realtà più insondabile: quella metafisica, la realtà ultima, così estranea alle realtà empiriche delle nostre esistenze quotidiane. Il suo studio di scultura, un piccolo spazio ritagliato nel sottoscala dello stesso palazzo monumentale è il tempio degli antenati come egli stesso lo definisce.

Qui, accanto a farmene di terracotta come quelle degli antichi artigiani che fabbricavano colombari per le anime dei trapassati, mi vengono incontro ancora immagini simboliche di un passato sepolto dall’oblio. Anche qui si tratta di simboli che non rimandano a nulla se non a se stessi, ma si capisce come sia vivo il desiderio dell’artista di impadronirsi della morfologia del simbolo per meglio rendere cosciente a se stesso e a chi guarda la sopravvivenza di elementi arcaici. E un luogo di culto, questo antro sacro, e in principio il culto era legato alla corporeità materiale, poiché in essa, soprattutto in essa, si vedeva la conservazione dell’Io. Egli vi vede la conservazione del vero Io, un Io svincolato da qualunque forma di coercizione sociale nell’adesione alle cose umili della terra, al paziente e perseverante lavoro. Salvatore Vitagliano parla poco. Tanto meno delle sue opere, e tuttavia interrompe la mia concentrazione affrettandosi a dichiarare di non essere un simbolista, che i simboli non sono importanti per lui, ciò che conta è l’energia. vero, i simboli non sono importanti nella sua opera, ciò che conta è la pittura, fatta di fremiti, di vita, e immagino la mano del pittore all’opera, la vedo fremere e palpitare come la sua pittura.

La sua anima e l’anima della cosa che dipinge diventano tutt’uno.

Una figura pensa con i suoi pensieri, un albero respira con i suoi polmoni. Su tutto alita il soffio vitale dell’autore. Per giungere a una tale vitalità egli è costretto a riprendere continuamente il lavoro, a ridipingere quello che il giorno prima sembrava terminato. Per lui un quadro non è mai “finito”. La forma non diventa mai quella famosa entelechia di cui parlava Aristotele. Se l’arte è la vita, la vita si conclude solo con la morte, col nulla, ma finché è vita, è cambiamento. Questo è un punto cruciale che l’esteta decadente non ha saputo risolvere, e che invece Vitagliano penetra fino alle estreme conseguenze. L’ebbrezza dell’arte — scriveva Baudelaire — è più adatta di qualunque altra a nascondere i terrori dell’abisso. Per scendere nel proprio abisso Vitagliano non si affida ad altra magia che le sue proprie immagini, né ad altri mezzi che la propria forza espressiva. E per penetrare in fondo il mistero della vita, lui non può accontentarsi di rivolgersi superficialmente alle filosofie orientali – come fanno gli adepti della new age. Deve viverle Tao. E la più alta concezione etica della vita e il principio ultimo della metafisica orientale. Il taoismo è virtù, inazione, natura, antiutilitarismo, non desiderio, non rivalità, mitezza, docilità … e lui è mite, docile, virtuoso, disinteressato. Secondo il taoismo, solo liberandosi dell’Io sociale si diventa consapevoli del vero Io, e lui è svincolato da tutti i conformismi sociali perché vive in pace col suo proprio Io. Il Tao trascende il bene e il male, non si lascia giudicare da nessuna misura umana, e lui agisce in modo da non lasciarsi classificare o imprigionare in una categoria definita. Ma soprattutto, per il Tao, la natura non è un qualcosa, è un Tu. E il Tu è allo stesso tempo forma ed essenza, cosa e verità, è oggetto e soggetto, è il quadro che si dipinge o la scultura che si plasma e il suo autore nello stesso tempo. E qui il cerchio sembrerebbe chiudersi. La famosa energia di cui parlava è questo principio informatore inscritto nell’universo, la forza vitale che dal cosmo fluisce nel pennello dell’artista cinese, per il quale l’originalità non conta nulla: conta soltanto la perfezione, che è affiato con l’universo; perfezione che non è mai conclusa, perché non ha gradi, né toni, come un canto gregoriano che non ha ritmo, ma è il respiro dell’anima. L’importante è la sintonia che deve stabilirsi col Chi, in modo che l’anima dell’universo confluisca nell’opera. Solo così si potrà tendere alla perfezione, che non e mai assoluta, perché ci sarà sempre una nuova e più perfetta perfezione. Quando gli dico che, a un certo punto, il supporto non reggerà più lo strato di materia che vi si deposita sopra, e che si spaccherà, lui mi risponde che anche allora continuerà a lavorarci sopra: sono le rughe che il tempo deposita sugli esseri umani. E qui c’è un altro problema che la pittura di Vitagliano solleva: il tempo. E un tempo dilatato che, come la creazione, ha un inizio, ma non una fine, un tempo che si ripiega su se stesso, in un eterno ritorno che è nietzscheiano e taoista insieme. Ma tutto questo non si evince dall’opera, che rimane ermetica.

Spiritualmente rivolto al passato, Vitagliano è un artista d’avanguardia.

Egli però non tende ad aggredire trasversalmente concezioni convenzionali acquisite, né a interrogarsi sulla realtà empirica dell’arte, sulle modalità dell’opera. L’immagine, per lui, non assume un significato puramente immanente. E si spiega: egli è rivolto al sacro, e il sacro non conosce la separazione tra un mondo dell’essere immediato e un significato indiretto, tra immagine e cosa, Quella che noi chiamiamo rappresentazione, per il sacro è un rapporto di identità reale. L’immagine non rappresenta la cosa, è la cosa, quella che i greci chiamavano eidolon. La statua di un dio e il dio in persona. La bambina raffigurata con l’abito della prima comunione è impressionante. Tutti i particolari sono al posto giusto: il velo, le mani guantate che reggono il libro di preghiere, le scarpe. È tutta bianca, anche il volto, solo una striscia di colore azzurro, appuntita come una spada, le pende dal fianco interrompendo la candida uniformità. Eppure, a guardarla bene, questo simbolo di innocenza non sembra affatto innocente. Quei suoi grandi occhi scuri, severi, solcati da profonde occhiaie azzurre (lo stesso colore della spada), turbano. Sono occhi inquisitori che ti rovistano l’anima, spietati e ostili. La si guarda con un senso di malessere, di paura, come si guardasse l’improvvisa apparizione di un demone. È un’epifania, ma un’epifania infernale. Perché e così inquietante quella bambina? Così insostenibile quella visione? Perché quella spada azzurra segna a un tratto una barriera? È un’opera fondamentale, questa, nel percorso artistico di Vitagliano, un capolavoro nel senso più esatto del termine, in quanto è da essa che scaturiscono le altre opere. È un indizio, forse una presa di coscienza, ma di che? Di una prima comunione con l’essere? Di un ricongiungimento? Da che deriva il turbamento che si prova guardandola? Da una simile terrifica esperienza il profano è escluso. Di forte adesione emotiva, invece —anche se del pari inquietante — è la grande tela raffigurante Uno che attraversa il mare. È una figura dall’ambiguità androgina e dai colori accesi. Vi predominano il rosso intenso e l’azzurro. La struttura è monumentale, architettonica, di grande consistenza plastica, e l’impasto compatto, forte e denso, come è nello stile di questo pittore che sa dominare la materia con straordinaria maestria. I colori si chiamano e si rispondono reciprocamente, la luce ha lo stesso valore dell’ombra e lo spazio è perfettamente integrato con la figura. Questa, infatti, pur nelle sue linee sfrangiate, vi si integra senza perdere la sua coesione. I rigidi confini dell’interno e dell’esterno, del soggettivo e dell’oggettivo non rimangono più tali, si fluidifica-no ma non riflettendosi l’uno nell’altro in un vicendevole rispecchiamento che ne riveli il contenuto: semplicemente diventano la stessa sostanza. Le parti del corpo hanno la liquidità dell’acqua, ma la figura non è una metamorfosi, è l’acqua stessa, il principio di tutte le cose.

L’unità della vita è così raggiunta, ed è una unità qualitativa.

Qui non esiste alcuna differenza tra il mondo dell’essere naturale e quello dello spirito, nessun dualismo in grado di stabilire la distinzione tra corpo e anima, sulla quale la coscienza metafisica stabilisce la certezza dell’immortalità. Una tale coscienza gli antichi la fondavano sull’interdipendenza di vita e morte, senza alcun prima e alcun dopo, ma come completa e indivisibile compenetrazione dei due processi. Quasi tutti i suoi volti hanno orbite cave al posto degli occhi, eppure il loro sguardo è intenso e ci scruta. Sono occhi pieni di vuoto e di silenzio. Alcuni di essi, pur non essendo mai semplici volti umani, possiedono una rigorosa compiutezza formale. Senza perdere nulla della loro identità, vengono subordinati al colore, che non è quello specificamente attribuito alla carne, perché il pittore rinuncia deliberatamente a imporre loro le associazioni abituali. In questo modo essi adottano qualità di trasparenza, di duttilità, fluidità, che sono le condizioni a cui esseri e cose vengono chiamati a una diversa esistenza. L’elemento dinamico e ritmico rimane il medesimo, non solo nella figura, anche nell’oggetto naturale che vi è commisto: lago, prato, mare, fuoco, cielo, vento…

E questo il suo modo di conoscere, e non ci sorprende che si serva dell’aspetto umano per dare un volto alla natura. Passare di là e salvarsi non necessariamente comporta un abbandono del nostro corpo e del nostro volto, della nostra responsabilità morale, insomma di tutta quanta la nostra pesante e vischiosa umanità. In questo modo l’uomo, pur continuando ad essere il centro e la misura di tutte le cose, nel vivere e nel morire del mondo, della natura, non trova soltanto un’espressione indiretta e riflessa del suo proprio essere, ma coglie e conosce in esso direttamente se stesso, vive in esso il suo proprio destino, Contenendo in sé una pluralità di elementi inietta nella materia un coefficiente di intensità. Il mondo — dice Bachelard — è intenso prima di essere complesso.

Ogni figura di Vitagliano possiede questa intensa vitalità.

Già in alcune sue opere precedenti, la composizione ruotava intorno a una sorta di oggetto bombato, come un grande ovolo. Si trattava piuttosto di una forma indotta ad ampliarsi, a sollevarsi, senza tuttavia rompersi, segno di una vera dilatazione dell’essere. Questa forma annunciava un’interiorità intensa dello stesso oggetto, diceva la spinta di una pienezza impaziente. E tuttavia essa non dava veramente sfogo a quel movimento di espansione. La ricchezza di questa forza bisognava andare a estrarla, e per estrarla era necessaria la solitudine meditativa. E così Vitagliano, con un gesto imprevedibile e folle incollò a due a due i suoi quadri col vinavil, e come un eremita si ritirò nel Beneventano. Coerentemente con i suoi principi, egli non poteva abbandonare il campo per evenienze non attinenti al suo modo di concepire la pittura. Forse influì su di lui anche la piega che stava prendendo l’arte in quel periodo burrascoso, che non attribuiva alcuna importanza al valore della pittura in sé. Durò quasi un decennio la sua meditazione solitaria. Poi ricomparve. Oggi queste stesse forme arrotondate sono le sue figure umane, e quale intensità esse possiedono, quale mobilità! Ma si tratta di una mobilità contenuta, quasi virtuale, come una venatura che riveli nell’involucro della materia una identità centrale spirituale. Nel volto di una donna, dove l’iridescenza del verde si ingolfa con infinite vibrazioni e sfumature — quasi si trattasse di una palude — si riverbera il ciclo vitale della vita fermentante dell’acqua che ristagna: non una sostanza morta, ma un brulichio di creature che vivono, La palude diventa così l’esca in cui abbocca la bellezza; ma solo per fare più profonda la profondità dello stagno. Un viola fiammante, invece, accende il volto di un fiume, un volto che rievoca la notte del tenebroso fondo, le sue ombre che risalgono dal silenzio e invadono gli occhi vuoti e dolorosi della figura. È un’immagine di dolore cosmico. Quale male insondabile si cela nella vita che scorre? È sempre ravvisabile, nelle opere di Vitagliano, qualcosa di altro, e non sorprende che egli si serva dell’aspetto umano per dare un volto alla natura. Attraverso le sue opere egli ci conduce a viaggiare nei grandi campi dell’universo, nella neutralità della luce, senza farci dimenticare il nostro nome. Le sue figure umane sono essenze riconoscibili, con i loro tratti particolari, le loro espressioni: conservano il carattere del modello al quale si può perfino dare un nome. Dall’umanità non si evade, non occorre nessuna fuga irresponsabile, l’essere è poroso, assorbe in sé la realtà oggettiva, e in questa porosità acquista vigore, consistenza e spessore. La fanciulla raffigurata in assorto raccoglimento, tutta bianca su uno spazio nero, si erge granitica come una montagna. La sua bianchezza assume una sfumatura di rosa, lieve come uno smarrimento verginale, senza di che il bianco non avrebbe coscienza del suo proprio candore. Ho visto ripetutamente Vitagliano lavorare a questo quadro, ogni volta la figura era sommersa da un nuovo spessore di colore; e ogni volta il pittore mi diceva che così era finita. Poi, un bel giorno l’ha finita davvero (o almeno così sembra fino a questo momento), e davanti ai miei occhi un nuovo mondo si è aperto. È difficile mantenere una distanza critica davanti al fremito dell’universo, perché in quest’opera si sente veramente l’universo che freme. La notte buia, punteggiata da mille bagliori — mille creature invisibili che nulla attendono dal respiro del tempo — è un silenzio che canta e riecheggia nell’anima come un interminabile tonfo.

Nulla si muove nel quadro, eppure tutto è in movimento, tutto vibra.

La notte è laboriosa, nemmeno i vertici dei monti e i baratri dormono. Ma via via che gli occhi si abituano al buio strane immagini affiorano. Al centro della notte c’è un uccello nero, un uccello emissario del vuoto accanto alla fanciulla avvolta nella sua solitudine, nel suo sogno di neve. Aspetto sacro di verginità, ella incarna un universo verticale contro il quale si infrange ogni tentativo di profanazione. Sulla fronte candida, però, un buco nero come un ferita, o come un sesso, ha lo stesso colore, lo stesso impasto dello spazio che l’abbraccia. È uno spiraglio. In questo punto di inserzione l’universo si è aperto un varco nell’essere, si è annunciato alla coscienza. Cosi, senza l’ausilio di nessuna cesura plastica, se non il contrasto della figura e il nero dello spazio, Vitagliano ci dà la stessa sensazione di ineffabilità — tanto più imperiosa quanto più segreta — delle grandi annunciazioni quattrocentesche.

Tutta la poesia delle sue immagini ci dice che la notte e le tenebre non sono evocate per la loro estensione, il loro infinito, ma per la loro unità, perché nella notte tutto si fonde. Ci dice che fuori del momento creativo, momento sacro, solenne, che immobilizza il tempo in un solo istante, non c’è che prosa e profano. Nel suo mondo nulla poggia con calma e saggezza, con pesantezza, sul rassicurante terreno delle convenzioni acquisite — la bellezza non è forse perturbante e perversa? I cieli sulfurei conservano tracce di presenze diaboliche, la terra è trasparente, l’aria è solida, l’acqua verticale. Eppure, non si tratta di un mondo capovolto; piuttosto di un mondo che rifiuta il conflitto degli opposti. Non c’è dialettica nel suo mondo poetico; o meglio, la dialettica è stata vinta dalla poesia, l’unica capace di trasportare l’essere al dì là della pura durata, di far sentire il tempo come un’ascesa, dove nulla è anteriore o posteriore, ma dove tutto si vive in un solo momento: la dolorosa gioia e il dolore che consola.

Tuttavia, malgrado il disperato tentativo di una sintesi conciliatrice, non sembra esserci nel mondo poetico di Vitaliano alcuna possibilità di pacificazione: la materia è agita dall’interno, la sua interiore intensità risveglia immagini dinamiche. Quel senso di inquietudine che emanano le sue figure ci turba. E turbare vuoi dire introdurre disordine. È questo il culmine del suo messaggio: pervertire tutte le nostre false certezze e mostrarci un ordine diverso, le cui coordinate sanno imporre una direzione allo spirito, questa parte così obliata della nostra umanità. Se la grandezza di Picasso consiste nell’aver sovvertito la forma, cardine essenziale delle nostre convenzioni acquisite, la grandezza di questo pittore misconosciuto risiede nel perturbare i fondamenti stessi della nostra coscienza. E un danno per tutti, che forze avverse non gli consentano di raggiungere un pubblico più vasto. Ma egli non si dispera, perso come è nella sua pittura, unica fonte di consolazione.

Una mutazione continua in cui ciascuna delle forme si scambiava i propri attributi. Non basta, dunque, l’ottusa volontà di cancellare il suo nome per precipitarlo nel nulla. Il nulla, per lui, conteneva il germe dell’essere, e a dispetto del becerume imperante egli vive nella sua opera, che è li, a sfidare il tempo e i pregiudizi del tempo.

Maria Roccasalva

 

 

 

 

 

 

 

 

MARCIANO ARTE GALLERIA d’arte E CORNICI, NAPOLI

Salvatore Marciano

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